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Precari e ceti medi, la sinistra tolga la leva alla destra

Precari e ceti medi, la sinistra tolga la leva alla destra

Crisi sociale/pandemia Se le destre invocano di fatto il vecchio liberismo, ovvero un “si salvi chi può” affidato più al caso che al merito effettivo dei singoli operatori economici, “redistribuzione” e “programmazione” dovrebbero essere le parole chiave su cui ripensare una moderna agenda politica democratica e progressista

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 aprile 2021

Nell’attuale fase politica l’egemonia politica della destra, apparentemente divisa fra un partito “di lotta” e uno “di governo”, fa leva sul malcontento diffuso fra vasti settori del lavoro salariato, del precariato sommerso e del ceto medio produttivo duramente colpiti dall’interruzione di molte attività economiche, nonostante l’erogazione da parte dagli ultimi governi di “ristori” e di vari strumenti di tutela sociale, senz’altro ingenti ma evidentemente insufficienti a far fronte all’impoverimento di molte delle suddette categorie. Il consenso delle destre poggia su questi drammatici elementi di realtà, anche se non implica alcuna concreta opposizione, al di là degli slogan, ai “poteri forti”, alla grande borghesia, e più in generale a tutti quei gruppi privilegiati che in questa drammatica fase potrebbero essere coinvolti, all’interno di una rinnovata strategia di programmazione dell’economia, in un sostanzioso processo di redistribuzione dei redditi.

Le sofferenze e le difficoltà reali dei settori lavorativi colpiti dalla pandemia sono state astutamente cavalcate dalle destre, che hanno avuto gioco facile nell’imporre al governo l’allentamento delle misure restrittive e l’anticipazione al 26 aprile delle riaperture di alcune attività economiche e delle scuole. Tale scelta, sebbene sia stata giudicata da molti autorevoli infettivologi come populista, avventata e in fin dei conti dannosa per la stessa economia, ha riscosso ampio consenso principalmente per due ragioni. Da un lato perché ripropone il vecchio mito, duro a morire, della superiorità del laissez-faire, della libertà individuale dei singoli operatori economici rispetto al dirigismo di uno Stato “opprimente” e capace solo di imporre divieti; dall’altro perché poggia su una potente retorica consolidatasi negli anni, cavalcata purtroppo anche da sedicenti forze politiche “riformiste”, ossia la contrapposizione fra i “garantiti” (i dipendenti pubblici, essenzialmente) e i “non garantiti” (i liberi professionisti, i piccoli e medi imprenditori o i lavoratori autonomi).

Chi in questi mesi di pandemia ha ricevuto mensilmente il proprio stipendio è stato senz’altro meno esposto al disagio economico rispetto, per esempio, al piccolo esercente che non ha potuto aprire l’attività da cui traeva di che vivere; tuttavia la distinzione fra “garantiti” e “non garantiti” è una vuota astrazione, se non si considerano le contraddizioni interne a questi due ipotetici campi avversi. Se la sinistra fosse all’altezza dei suoi compiti, in questa fase difficile di lotta alla pandemia, dovrebbe ripartire proprio da uno scardinamento di questa fuorviante contrapposizione, cominciando da un’attenta analisi dei bisogni e delle reali condizioni in cui versano le diverse categorie di lavoratori: non solo i salariati, ma anche i piccoli imprenditori, i piccoli proprietari, gli esercenti, gli impiegati, gli addetti al settore della cultura, e così via. La lezione dei classici, se non fosse stata gettata alle ortiche dal 1991 in avanti, sarebbe ancora una miniera da cui attingere.

E viene da pensare, per esempio, al tema posto da Palmiro Togliatti nel 1946 in Ceto medio e Emilia rossa. Il fronte progressista, a suo avviso, anche per prevenire la riproposizione di quel blocco di forze sociali che aveva sostenuto il fascismo (la grande ma anche la piccola borghesia), avrebbe dovuto individuare all’interno dei cosiddetti “ceti medi” (piccoli e medi commercianti o proprietari, professionisti, esercenti, artisti, impiegati, e così via) quei legittimi interessi meritevoli di attenzione, in una nuova alleanza con i lavoratori salariati, e in una lotta reale contro le rendite di posizione della grande borghesia. Oggi, mutatis mutandis, una nuova politica di attenzione verso i ceti medi dovrebbe riuscire a canalizzare il malcontento sociale soprattutto verso la richiesta di un nuovo patto redistributivo, chiamando a fare la loro parte quelle categorie produttive che non hanno smesso di fare profitti, e persino di accrescerli, anche in tempo di crisi: dall’industria farmaceutica a quella dei prodotti sanitari, dal comparto assicurativo al commercio online, dalla logistica alla distribuzione a domicilio, dal settore informatico a quello della consulenza. E la lista potrebbe continuare.

Se le destre invocano di fatto il vecchio liberismo, ovvero un “si salvi chi può” affidato più al caso che al merito effettivo dei singoli operatori economici, “redistribuzione” e “programmazione” dovrebbero essere le parole chiave su cui ripensare una moderna agenda politica democratica e progressista. È su questo terreno che l’egemonia della destra, basata sulla contrapposizione fra “garantiti” e “non garantiti”, potrebbe cominciare a essere contesa, prima che le derive populiste e reazionarie possano prendere il sopravvento.

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