Cultura

Praticare l’arte del vuoto

Praticare l’arte del vuoto

INCONTRI Un’anticipazione dalla lectio «L’origine dell’umano» nell’ambito del Festival «Kum!», da domani ad Ancona

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 17 ottobre 2019

Fare il vuoto. È un’origine dell’umano, tra tante. Forse l’origine dell’umano, al singolare. Un milione e mezzo di anni fa l’uomo si stacca da terra, e in quel momento inizia a essere quello che chiamiamo l’uomo. O, che è lo stesso, in quel momento inizia a prendere congedo dal primate che era stato fino a quel momento, e che in qualche misura sempre lo accompagnerà come un doppio quasi rimosso e assolutamente familiare.

A UN CERTO PUNTO il nostro lontano progenitore libera le zampe anteriori dalla funzione di appoggio, e le destina a una varietà e raffinatezza di funzioni prima inimmaginabile. Disponendo di mani anziché di zampe, libera la bocca dalla funzione di presa, prima indispensabile per trattenere una preda catturata e per raccogliere oggetti da terra. Questa liberazione consente all’intera regione di rimodellarsi, di dotarsi di strutture scheletriche più lievi, di sviluppare muscolatura più fine, di realizzare movimenti più precisi. Per esempio di emettere suoni più calibrati. Per esempio di elaborare richiami più facilmente modulabili. Quei suoni, che contengono l’origine più remota di quello che diventerà il linguaggio, non fanno poi a loro volta la stessa cosa? Non fanno anch’essi il vuoto, non diradano anch’essi una specie di densità precedente, non articolano quella densità difficilmente maneggiabile secondo geometrie sempre più variabili e differenziate? Quei suoni segnalano ad esempio qualcosa, attirano l’attenzione del singolo o del gruppo su un evento rilevante. Staccano quell’evento dallo sfondo complessivo del paesaggio. Producono per la prima volta quello che chiamiamo oggetto. Ci sono oggetti, nel mondo, perché sappiamo fare il vuoto e perché siamo dotati di una voce che fa il vuoto.

ALLO STESSO TEMPO, quei suoni che non sono tanto dei segni quanto delle strategie, che non sono tanto una forma di comunicazione quanto una radicale riorganizzazione del campo dei possibili, innalzano il nostro antenato a quella che potremmo chiamare un’altezza inedita o un’imprevista posizione di sorvolo. Da quella posizione i nostri antenati possono studiare il paesaggio come insediandosi in un punto di vista quasi metafisico, situato in qualche modo al di sopra della pressione del mondo. In fondo la metafisica come tradizione filosofica, la metafisica come vocazione dell’essere umano, su cui sempre insiste la stanchissima canzone dell’umanismo, è semplicemente un effetto di quest’arte di fare il vuoto, un risultato inevitabile di questo remoto ma sempre ripetuto staccarci da terra.
Che cosa può fare, di nuovo, di straordinario, il nostro antenato, una volta che quell’arte imprevista del vuoto e della voce l’ha installato dove neppure lui sa troppo bene di essere? Può, per esempio, individuare con nuova efficacia un frutto, una preda, un predatore. Può tenerlo a mente e richiamarlo con inedita efficacia. Può coordinare meglio le proprie azioni e quelle dei compagni, in modo da raggiungerlo o catturarlo o evitarlo. Nasce il gruppo umano non come branco ma come sistema di azioni coordinate, come macchina propriamente strategica. Una volta accaduta, quest’arte di fare il vuoto, questa capacità di svuotare e distanziare tutto quanto si presentava dapprima come pieno e come compatto, inizia a fare il suo corso e a irradiarsi in direzioni sempre nuove, solcando in ogni modo il campo della nostra esperienza.

IL RISULTATO è che a moltiplicarsi, a differenziarsi in maniera vertiginosa sono gli oggetti che punteggiano quel campo di esperienza, dato che quegli oggetti sono semplicemente l’effetto diretto e inevitabile di quell’arte del vuoto. Nel corso del tempo gli oggetti diventano sempre più numerosi, o per meglio dire, diventano sempre più numerose le nostre possibilità di oggettivazione. I nostri oggetti sono sempre più finemente articolati, sempre più disponibili perché sempre più efficacemente identificabili e e sempre più precisamente verificabili. Allo stesso tempo, paradosso dei paradossi, quegli stessi oggetti diventano sempre più lontani e indisponibili, sempre più profondamente consegnati a quella distanza che li ha suscitati. Tutti i nostri oggetti sono fatti, non della materia del mondo, ma della materia della voce e di quella materia di tutte le materie che è la materia del vuoto.

NOI STESSI, si potrebbe aggiungere, siamo anzitutto gli oggetti della nostra voce e siamo disposti nel paesaggio dei nostri oggetti anzitutto come un oggetto tra quegli oggetti. Certo noi siamo un oggetto specifico, un oggetto dotato di una sua particolarità, un oggetto affezionatissimo alla sua particolarità. Ma in ultima analisi noi siamo un oggetto non troppo diverso dagli altri. Se non altro perché fatto anch’esso di voce, e installato nella sua particolarità, assegnato alla sua posizione specifica rispetto agli altri oggetti, dalla stessa potenza che ha installato quegli altri oggetti nella loro posizione di oggetti. Noi siamo un oggetto lavorato da quell’arte del vuoto che lavora ogni oggetto e che suscita l’oggettività di ogni oggetto. Idea inquietante, evidentemente. Eppure, non è più inquietante l’idea alternativa, l’ipotesi più familiare?
La nostra infelicità sta forse tutta quanta nel cedere al feticismo del pieno, nel tentare di solidificare la fuga orizzontale degli oggetti, nel desiderare che al posto del vuoto ci sia materia stabile e affidabile. Chi ha paura del vuoto spera in fondo che al posto della vita ci sia la morte, e scongiura il rischio di morire grazie a quell’astuzia sublime che consiste nel supporre che tutto sia già finito.
La nostra felicità possibile sta forse nella manovra capovolta, nel tentativo, se non altro, di corrispondere senza rimorso a quell’arte assolutamente affermativa che è l’arte del vuoto. Essere all’altezza della sua corsa infinita e infinitamente differenziata, questo è forse l’unico modo per aver cura di quegli oggetti del vuoto che noi siamo, e che scopriamo di essere, che impariamo a essere, ogni volta di nuovo, ogni volta da capo.

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Fino al 20, la terza edizione del festival

«L’origine dell’umano» è il titolo della lectio che inaugurerà la terza edizione del festival dedicato alla cura e alle sue diverse pratiche (con la direzione scientifica di Massimo Recalcati). Oltre 40 incontri per più di 60 tra relatori e relatrici, tra cui psicoanalisti, psichiatri, medici, ma anche filosofi, antropologi, scrittori e poeti, teologi e biologi discuteranno del tema di quest’anno, l’origine della vita nelle sue differenti e contraddittorie declinazioni: dalla nascita dell’individuo come soggetto alla costruzione dell’alleanza umana, dall’origine della vita sulla Terra alla formazione dell’universo tra mito e scienza. Interverranno tra gli altri: Guido Tonelli, Silvia Vegetti Finzi, Mariela Castrillejo, Aldo Becce, Maurizio Balsamo, Uberto Zuccardi Merli, Giorgia Cannizzaro, Stefano Mancuso, Telmo Pievani, Alessandra Campo, Riccardo Panattoni, Francesco Remotti, Laura Faranda, Luigina Mortari. Per il programma completo www.kumfestival.it

 

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