Visioni

Potere alla parola. I «rapconti» di Murubutu

Potere alla parola. I «rapconti» di MurubutuMurubutu

Musica L’artista di Reggio Emilia insegna storia e filosofia e ama riempire di riferimenti letterari i suoi brani. «Tenebra è la notte e altri racconti di buio e crepuscoli» è il suo quinto progetto discografico

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 22 febbraio 2019

«Coglieva, di tanto in tanto, il succo del discorso e completava il resto con il suo subconscio, come si coglie a metà la suoneria di un orologio e in mente aleggia soltanto il ritmo dei primi colpi non contati»: così scriveva Francis Scott Fitzgerald in Tender is the night, tradotto per la prima volta in Italia nel 1949 da Fernanda Pivano per i Coralli di Einaudi. Edizioni alla cui veste grafica si è richiamato nei quattro dischi precedenti questo musicista, a sottolineare la forte tensione letteraria del suo lavoro: Alessio Mariani, da Reggio Emilia, al secolo Murubutu , tornato in questi giorni con il nuovo lavoro, Tenebra è la notte e altri racconti di buio e crepuscoli, pubblicato da Mandibola/Glory Hole Records e già in classifica. Un album che conferma la levatura di chi sostiene da tempo che «un altro rap è possibile»: denso di riferimenti e privo di slogan. Pieno semmai di consapevolezza e di visioni intime che sanno farsi universali: storia, memoria, potere alla parola.

Sei nell’hip hop da più di vent’anni. Quali sono i tuoi primi ricordi?

Mi sono avvicinato all’hip hop all’inizio degli anni novanta, affascinato dalle prime jam bolognesi al Livello 57 con artisti come Deda, Speaker Dee Mo e Militant P e dove le quattro discipline (il rap, il DJing, il writing ed il B-boying, ovvero il ballo, ndr) coesistevano. In quella cultura vedevo un movimento di protesta e soprattutto respiravo un senso di comunità che poi è svanito. Se penso ad un disco da cui per me è partito tutto dico Stop al panico di Isola Posse All Stars, del 1991.

In che modo l’ hip hop riflette i cambiamenti della società e come vedi il rapporto tra musica e politica?

L’hip hop è la cultura giovanile più diffusa degli ultimi trent’anni. La sua disciplina più esposta, il rap, esprime i mutamenti sociali: ora in negativo, quando diviene prodotto commerciale, con rappers imprenditori che veicolano messaggi discutibili, ma ora anche in positivo, quando diventa punto di aggregazione e baluardo nei territori contro le dinamiche di razzismo, alienazione e individualismo. L’hip hop è politica, in questo ultimo senso, tutti i giorni.

Definisci i tuoi testi, parecchio più densi della media tipica dell’hip hop italiano, dei «rapconti». Ci spieghi meglio ? 

Il rap è un mezzo estremamente efficace per parlare alle giovani generazioni, anche utilizzando un linguaggio elevato e veicolando contenuti rilevanti: può essere molto di più che slang e autocelebrazione. Sono un insegnante nella vita di tutti i giorni e ho riversato nel rap il mio amore per la narrativa ed il mio interesse per la divulgazione culturale. Mi piace pensare di avere dato vita a due sottogeneri: la letteraturap e il rap didattico. Voglio far viaggiare i miei ascoltatori. Un viaggio da cui tornare con qualche spunto di riflessione ed un lessico più ampio.

A proposito di rap didattico: i tuoi testi sono colmi di riferimenti alla letteratura ed alla storia, in quest’ultimo disco si passa da Kafka al massacro degli ugonotti, diversi versi hanno la potenza della poesia. Che rapporto c’è per te tra poesia e rap? Quali sono le tue fonti di ispirazioni o per davvero «le canzoni nascono da sole»?
Il rap può sicuramente essere poesia nella misura in cui ha la volontà di esserlo. Del resto, il rap è il genere che più di tutti lavora sulla metrica e sull’utilizzo di tutte le figure retoriche. Penso sia veramente uno spreco utilizzarlo solo per parlare dei soliti tre, quattro argomenti. Esempi di testi poetici si trovano sicuramente in artisti come Dargen D’amico, Claver Gold, Rancore. Le mie fonti di ispirazione sono i romanzi che leggo, i racconti popolari che raccolgo, i viaggi, ma soprattutto i ricordi dell’infanzia.

«Uno scrittore accende il lume ed inizia la bugia»: la scrittura è per forza finzione, dunque. Quali sono i tuoi riferimenti letterari in generale e quelli presenti sul disco?

Non è solo la scrittura ad essere finzione quanto la parola in sé a tradire costantemente la realtà. Sono d’accordo con la provocazione del sofista Gorgia quando affermava che la verità non è comunicabile, a maggior ragione quando lo si fa con un racconto o ancor di più con una canzone. I miei riferimenti letterari principali sono il naturalismo francese, russo ed italiano dell’Ottocento. Io però leggo di tutto e in questo disco in particolare alcuni contemporanei cui mi sono ispirato sono stati Haruf, Rigoni Stern, Ishiguro e Mercedes Lauestein.

Nel disco ci sono diverse collaborazioni, tra cui Caparezza. Ci racconti come è avvenuto l’incontro?

Stimo Caparezza perché è il primo che è riuscito a portare un rap caratterizzato da una scrittura alta e piena di contenuti al grande pubblico. Ho avuto modo di conoscerlo grazie ad un amico comune. Una persona di grande intelligenza e disponibilità, professionale ed umile, è stato un onore collaborare.

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