Postfascismo e un passato da redimere, le soluzioni degli scrittori
Letteratura del Novecento Le ambiguità dell’Italia, dopo i disastri del regime, nei romanzi di Morante, Moravia, Saba, Levi; Berto, Brancati, Flaiano e Malaparte... Franco Baldasso, «Against Redemption», Fordham University Press
Letteratura del Novecento Le ambiguità dell’Italia, dopo i disastri del regime, nei romanzi di Morante, Moravia, Saba, Levi; Berto, Brancati, Flaiano e Malaparte... Franco Baldasso, «Against Redemption», Fordham University Press
In uno dei racconti del Sistema periodico (1975), Primo Levi associa al vanadio, metallo di transizione, raro in natura allo stato elementare, la storia del Doktor Müller, il chimico tedesco conosciuto nel laboratorio di Buna-Monowitz durante l’esperienza concentrazionaria, e poi incontrato, per caso, molti anni dopo. Nella prima lettera che i due si scambiano, e nella quale il dubbio sulla sua identità è sciolto da una sincera confessione, Müller parla della necessità di superare quel tragico passato comune, e dice: «im Sinne der so furchtbaren Bewältigung der Vergangenheit». La necessità di fare i conti con il passato, commenta caustico lo scrittore traducendone il senso dal tedesco, è un «eufemismo della Germania d’oggi», e corrisponde di fatto a una «redenzione dal nazismo». Come suggerisce la stessa radice etimologica della parola Bewältigung (superamento), «walt», alla base di lemmi quali dominio (Walten), stupro (Vergewaltigung) o violenza (Gewalt), fare i conti in quel modo con il passato nazista equivale a distorcerlo, a farne appunto violenza. È solo a patto di una certa cieca soperchieria ai danni della verità storica che è possibile, conclude Levi, redimersi.
Against Redemption Democracy, Memory, and Literature in Post-Fascist Italy (Fordham University Press, New York, pp. 320, $ 35,00) è l’ultimo libro di Franco Baldasso, professore di Letteratura italiana al Bard College, studioso di Primo Levi e Curzio Malaparte. Il volume discute gli anni magmatici e fluidi del secondo dopoguerra, quando si stavano gettando i semi ancora malcerti della neonata democrazia italiana, dopo lo sfacelo del Ventennio. Il paradigma della redenzione nasce – è questa la tesi dell’autore – dall’intrinseco bisogno di mascherare il passato: un nuovo inizio richiede la fine dell’esperienza precedente, ma non sempre la strada intrapresa è la migliore o la più giusta.
In una nota del suo diario personale, pochi giorni dopo l’uccisione di Mussolini, Elsa Morante descrive l’atmosfera romana di giubilo del primo maggio 1945, e riflette sulla responsabilità etica del popolo italiano che ha tollerato, se non incoraggiato e applaudito, i crimini fascisti. L’analisi della costruzione del discorso pubblico e della memoria collettiva, negli anni successivi alla fine della guerra, mette in luce la certosina perizia con cui parte della società italiana, quella più compromessa, si era affrettata a occultare la talora compiaciuta partecipazione al regime. E questa fulminea redenzione, che allude nella sua simbologia religiosa alla rinascita dopo la morte in croce di Cristo Redentore, è stata possibile sostituendo, nel discorso e nella memoria pubblici, il ventennio con il biennio. La conseguente ed eroica resistenza partigiana all’invasione nazista assurge a strumento sociale e politico con cui assolversi, secondo lo schema tradizionale di espiazione e redenzione: «I partigiani – scrive Baldasso – divennero una sineddoche per il popolo italiano, pur essendo una sparuta, ancorché lodevole, minoranza». È all’insegna di una sostanziale continuità, anche simbolica e retorica, dunque, che è avvenuto il passaggio all’Italia democratica, nascondendo sotto il tappeto dell’oblio le tracce della collettiva connivenza.
Against Redemption rappresenta forse la ricerca di un anti-canone al modello del neorealismo? No, di certo. Baldasso è invece interessato a superare la nozione stessa di neorealismo, che anche in sede critica è desueta, e riportare all’attenzione del pubblico una congerie di scrittrici e scrittori eterogenei ed eterodossi, alcuni fascisti della primissima ora come Berto, Brancati, Flaiano, Malaparte, Piovene, altri antifascisti convinti come Carlo Levi, Moravia, Morante o Saba, che hanno gravitato ai margini del cosiddetto sistema neorealistico, e hanno denunciato nelle loro opere la continuità istituzionale e culturale dell’Italia postbellica con il regime (e prima ancora con l’Italia liberale), e la necessaria e sincera valutazione, qualora ci fosse per davvero la volontà di emanciparsi dal fascismo e dai suoi modelli culturali, del naufragio dell’esperienza totalitaria. È in questa cornice che trovano spazio molte opere pubblicate tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, di cui Baldasso offre una distesa analisi: Kaputt e La pelle di Malaparte, in cui la crudeltà della guerra si riversa sulle carcasse di animali morti, simbolo della soverchiante e annichilente potenza della tecnologia moderna, dinnanzi alla fragilità delle creature umane; Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, in cui sul tema dell’impotenza sessuale si gioca, in filigrana, la decostruzione della romanità fascista e della mascolinità volgare; Scorciatoie e raccontini di Saba o Tempo di uccidere di Flaiano, opere queste nelle quali si discutono e si affrontano alcuni temi cruciali di quegli anni: la Shoah di cui il campo di concentramento di Majdanek in Polonia diviene simbolo, non espiabile, o il passato coloniale italiano rappresentato nelle forme inquietanti di una possibile ma mai manifesta malattia, la lebbra, il cui contagio (immaginato più che reale) diviene il simbolo della violenza perpetrata ai danni del popolo etiope.
Aveva compreso bene Carlo Levi quanto la genesi dei totalitarismi che adombravano le bianche spiagge di La Baule, su cui soffiavano i venti settembrini di guerra di quel fatidico 1939, fosse il frutto avvelenato della società capitalistico-borghese, con le sue politiche di esclusione, i falsi miti, la sua integrale violenza. Proprio nelle pagine di Paura della libertà, scritte di straforo su una agenda medica, mentre giungevano le prime notizie dell’invasione della Polonia, Levi aveva raffigurato, con toni apocalittici, il collasso della civiltà europea come un sistema di trasformazione della vitalità del sacro nelle formule terrifiche di una ritualità sclerosata su cui domina lo Stato-idolo.
Di questo terrore si è nutrito il fascismo che non è stato una parentesi, come ripeteva Benedetto Croce, nello sviluppo progressivo e ideale della storia. E questo, Levi lo aveva escluso con forza: anzi, da azionista di ferro, ravvisava proprio nella politica liberale del «virgilio napoletano» una delle concause della repentina volontà di riportare in vita nell’immediato dopoguerra le istituzioni di primo Novecento, spegnendo di fatto quella carica propulsiva e rivoluzionaria che il momento resistenziale aveva saputo produrre. A chiudere il cerchio di questa storia sono difatti le pagine del romanzo leviano L’Orologio, nelle quali Croce è a capo di un tribunale e deve stabilire se l’orologio appartenga o meno al protagonista. Esso rappresenta il tempo lineare della storia che, se perduto, dischiude il tempo magmatico e sterniano della rivolta; se ritrovato (come accade nel libro), impone il ritorno all’ordine, alla fine dell’esperienza resistenziale e alla caduta del governo Parri, come se tutto fosse stato in modo fin troppo semplice liquidato, dimenticato, superato. In una parola: redento.
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