Il consumo del nostro cervello è di 100 watt. Pur con una disponibilità energetica così scarsa, ognuno dei quasi mille miliardi di neuroni che contiene può produrre circa mille scariche elettriche al secondo, ciascuna in risposta ad un migliaio di impulsi provenienti da altri neuroni. Anche supponendo che ognuna di queste connessioni esegua soltanto una multiply-add (come nel caso di una tipica rete neurale artificiale), in un qualsiasi momento stiamo facendo cento milioni di volte più calcoli di un normale Pc. Per dirla in un altro modo, se mettessimo insieme abbastanza computer da eguagliare un cervello umano, nel complesso consumerebbero circa dieci miliardi di watt di potenza, circa un terzo del consumo energetico dell’intera Italia.

Certo, questo è un calcolo molto grossolano; forse sono troppo pessimista e sto sopravvalutando la capacità del cervello di un fattore mille, o perfino di un milione. Anche in questo caso, però, sembrerebbe che le «intelligenze» artificiali siano destinate a perdere qualsiasi gara di acume contro di noi, o perfino contro i nostri animali domestici.

Naturalmente i computer sono in grado di fare moltissime cose che gli umani non possono o non vogliono fare. Se ciò di cui abbiamo bisogno non è solo sentire un impulso nervoso che è il prodotto di due quantità, ma anche mostrare o conservare il risultato, il computer se la cava molto meglio dell’essere umano. Il vostro furetto è più intelligente del vostro Pc, ma non ci sa molto fare con un foglio di calcolo.
Per ogni possibile impresa umana, dunque, possiamo porci una questione fondamentale: che cosa può fare il computer per aiutarci a ridurre il lavoro monotono o, ancora meglio, a estendere la portata dei risultati che possiamo raggiungere? Possiamo anche rovesciare la domanda e chiederci: cosa possiamo imparare sulle imprese umane, guardando come le persone che vi si impegnano si rapportano ai computer?
Tra noi musicisti, per qualche ragione, qualcuno è sempre stato attratto dai calcolatori elettronici, almeno da quando nel 1951 il primo motivetto digitale è uscito da un altoparlante collegato all’elaboratore Csirac a Melbourne, in Australia. Ognuno di noi ha la sua personale combinazione di ragioni, ma probabilmente c’è qualche elemento costante. I compositori serialisti della seconda metà del XX secolo, per esempio, sembravano impressionati dal livello di precisione e dettaglio che una musica eseguita dal computer poteva raggiungere se confrontata con una esecuzione umana. Alcuni di loro, come Milton Babbitt o Brian Ferneyhough, hanno utilizzato i computer per integrare nella loro pratica compositiva complesse elaborazioni di dati e numeri.

Un’altra fonte di attrazione è semplicemente la vastità della gamma di suoni che si possono generare con la tecnologia digitale. Roger Shepard, per esempio, ha inventato una sequenza di suoni che sale o scende all’infinito pur tornando continuamente allo stesso punto, come una scala di Escher. In generale, quasi tutte le limitazioni che si incontrano scrivendo per uno strumento musicale convenzionale possono essere aggirate grazie a un software.

Una terza fonte di attrazione, più sottile e difficile da descrivere, è una sorta di desiderio astratto del potere di costruire e di distruggere. Tale impulso non è affatto confinato al mondo musicale, anzi. Lo vediamo nei bambini che costruiscono torri di mattoncini solo per farle rovinare sul pavimento. Negli adolescenti e negli adulti (soprattutto maschi, nella mia esperienza) prende la forma di un’attrazione per gli utensili elettrici e i veicoli a motore, nei quali un tocco del dito è amplificano a dismisura grazie a una sorgente esterna di energia.

Chi, come me, passa molto tempo in compagnia di gente ossessionata dai computer ha spesso occasione di vedere tale impulso in azione. Far fare cose ai computer è divertente. A un adolescente o un giovane che si sente trascurato o rifiutato dal suo gruppo, il Pc può offrire la possibilità di fuggire in un mondo fantastico di sua creazione, su cui può esercitare un dominio assoluto.

Sentii questo tipo di vibrazioni quando incontrai per la prima volta gli inquilini del Mit Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory, a metà degli anni Settanta, e le sento oggi quando leggo dei giovani che dominano il nuovo universo informatico. Allora come oggi era palpabile il desiderio di costruire nuovi mondi, cosa che si è spesso concretizzata nell’utilizzo di macchine o programmi di realtà virtuale in tre dimensioni. Mi sembra che la spinta verso un sempre maggior realismo delle immagini e dei suoni generati dal computer riveli il desiderio di creare un mondo alternativo a quello, a volte deludente, in cui viviamo.

Non è una coincidenza che molta della ricerca pionieristica, tanto nel campo dell’intelligenza artificiale quanto in quello della realtà virtuale, sia stata finanziata dall’esercito statunitense. Il Pentagono utilizzava giochi e simulazioni di guerra molto prima che questi facessero la loro comparsa nel portatile degli adolescenti; d’altra parte, se si vuole sparare a qualcosa, è possibile farlo solo in uno spazio tridimensionale. La realizzazione dei primi rendering digitali 3d è stata finanziata proprio grazie al desiderio del Pentagono di avere poligoni di tiro virtuali e in tre dimensioni.

Le prime due fonti di attrazione, a mio parere, hanno maggior probabilità di condurre un programmatore a un buon risultato rispetto alla terza. Ma i tentativi di utilizzare algoritmi di intelligenza artificiale per fare musica (o altri tipi di arte) possono spesso essere ricondotti all’ultimo tipo di impulso. L’artista deve vedersela con due tipologie di insidie, entrambe seducenti. La prima trappola, la più visibile, è la tentazione di creare arte che cerca di nascondere la propria vacuità esibendo una scintillante patina di tecnologia. L’artista che riesce ad evitare questo tranello rischia ancora di cadere nel successivo, che consiste nel credere che lì dentro ci sia davvero un qualche tipo di reale intelligenza.

Molti dei ricercatori informatici più brillanti sono anche musicisti di talento, ragion per cui è stata fatta una grande quantità di ricerca e sono stati sviluppati molti software indirizzati alla creazione musicale. Anch’io per tutta la vita mi sono mosso in questa direzione. La principale fonte di eccitazione, per me, è sempre stata partecipare a progetti musicali e aiutare a portarli sul palcoscenico; e poiché non ho una formazione musicale vera e propria ho sempre trovato fruttuoso lavorare con altre persone dotate di attitudini e abilità complementari alle mie. E mentre lavoro per concretizzare specifici progetti musicali provo anche a pensare, più in astratto, a come gli strumenti che sto costruendo possano aiutare altri musicisti, altrove e in futuro, a realizzare qualcosa di completamente diverso. L’unica costante certa, in tutto questo, è la musica stessa.

Ho imparato che, per aiutare un musicista a realizzare un brano, non è utile creare un programma che generi musica. Quello è il compito di chi compone, improvvisa o suona; creare un programma che componga (per esempio) nello stile di Bach è come creare un proprio mini-Bach personale, ed è qualcosa di cui il mondo probabilmente non ha urgente bisogno. Un modo migliore di procedere è cercare di capire cosa il musicista stia cercando di fare e suggerirgli un modo per farlo. Facendo questo più volte e in molte situazioni diverse, con il tempo, è possibile trovare la via per sviluppare strumenti più semplici e più generali, in grado di aprire un campo progressivamente sempre più esteso di possibilità.

L’impulso che spinge un ricercatore o programmatore a creare un mini-Bach anziché uno strumento generale potrebbe, in parte, avere un’origine comune con l’impulso a costruire mondi di cui parlavo sopra. Costruire un sequenziatore multitraccia di looping con randomizzazione equivale, in un certo senso, a costruire un musicista anziché uno strumento musicale. Non è questo ciò di cui abbiamo bisogno, e in più, proprio per la potenza di pensiero di gran lunga inferiore del computer, il risultato non sarà mai paragonabile a un prodotto dell’attività umana.

Gli umani sono predisposti per quello che Christopher Small, trasformando la parola «music» in un verbo, chiamava «musicking». Tale attività include, tra l’altro, tutto ciò che avviene nel nostro cervello quando ascoltiamo o facciamo musica. È un’attività umana atipica e misteriosa: la musica è una forma d’arte, e già per questo appartiene a una categoria la cui stessa definizione viene messa continuamente in discussione, ma perfino nell’ambito delle arti la musica si segnala per la sua assoluta imperscrutabilità.
Non siamo in grado di comprendere la cognizione musicale umana, o il «musicking» in generale, e non siamo nemmeno in grado di comprendere il funzionamento interno delle reti neurali artificiali che sottostanno ai sistemi AI. Questo non significa, tuttavia, che debba esserci una somiglianza tra i due. Sembra vero l’opposto: la nostra profonda ignoranza circa la natura della musica finora ci ha impedito di creare intelligenze artificiali in grado di generare musica interessante. Potrebbe sempre avvenire una qualche svolta rivoluzionaria, ma almeno finora le tecniche che hanno prodotto risultati interessanti, pur se di poco spessore, nell’ambito dei testi e delle immagini, non sono state facili da applicare alla musica.
D’altra parte, però, i sistemi AI hanno già la capacità di estendere la musicalità umana in forme che i sistemi non AI non avevano ancora sviluppato. Ci sono, per esempio, assistenti virtuali di mixaggio basati sull’intelligenza artificiale in grado di offrire impostazioni preliminari grezze per mixare registrazioni multitraccia di popular music.

In un certo senso questi sistemi possono essere considerati estensioni del cervello umano, nello stesso modo in cui gli strumenti fisici possono estendere il nostro corpo: da questo punto di vista, si può dire che i processi cognitivi coinvolti nel far musica si espandano nel software AI. Sembra probabile che l’intelligenza artificiale continuerà ad essere usata per realizzare nuovi strumenti per creare musica, non intelligenti in sé, ma comunque molto utili.

I computer, quindi, possono fare musica? La mia risposta, finora, è no, e dubito che la situazione cambierà in futuro. Penso che continueremo a far musica da soli, tanto meglio.

Questo saggio compare sul catalogo della Biennale Musica 2023 – Edizioni La Biennale di Venezia.