Portano a Parigi le “impronte” di quel missile
Andrea Purgatori Ripubblichiamo l’articolo scritto dal giornalista scomparso il 19 luglio per Le Monde Diplomatique, nel numero di luglio-agosto 2014.
Andrea Purgatori Ripubblichiamo l’articolo scritto dal giornalista scomparso il 19 luglio per Le Monde Diplomatique, nel numero di luglio-agosto 2014.
Sono le 20,08 del 27 giugno 1980 quando il DC9 della compagnia Itavia (1) decolla da Bologna con 113 minuti di ritardo. A bordo, i quattro membri dell’equipaggio e settantasette passeggeri, fra i quali tredici bambini.
Dopo aver superato gli Appennini, il DC9 percorre l’aerovia Ambra 13 che, sorvolando il Tirreno, porta a Palermo, destinazione finale. La visibilità è perfetta e le comunicazioni sono quelle di routine. Ma alle 20,59, secondo le registrazioni, il comandante si rivolge improvvisamente al secondo pilota. Una mezza parola soltanto: «Gua…» Forse «Guarda!». Nessuno sa che cosa volesse dire. La voce si interrompe bruscamente; il segnale radar scompare sopra la piccola isola di Ustica, a sessanta chilometri dalla costa siciliana.
Il DC9 si spezza in tre e si inabissa in mare, a 3.700 metri di profondità. Comincia allora una partita a poker le cui carte sono truccate dai governi, dalle autorità militari e dai servizi segreti di quattro paesi (Italia, Francia, Stati uniti e Libia).
Una partita estenuante, dalla posta in gioco inconfessabile: occultare la verità sull’esplosione in volo di un aereo di linea, con la morte di ottantuno passeggeri. Ecco il segreto di quella che in Italia è chiamata «la strage di Ustica».
Nel 2013, due sentenze della Corte di Cassazione italiana hanno attribuito l’esplosione a un missile aria-aria, senza identificare la nazionalità del caccia che l’avrebbe lanciato. Lo Stato italiano è stato condannato a versare 100 milioni di euro di indennità alle famiglie delle vittime per non aver difeso efficacemente lo spazio aereo. Secondo i magistrati, molto probabilmente il missile era destinato al leader libico Muammar Gheddafi, e le sue «impronte» portano attualmente a un’unica sospettata: la Francia.
Tracce, indizi, menzogne e testimoni importanti puntano in quella direzione. Il 25 giugno 2007, tre anni prima della morte, l’ex presidente della Repubblica italiana Francesco Cossiga fa una dichiarazione clamorosa alla radio nazionale e alla catena televisiva Sky: «I francesi sapevano che l’aereo di Gheddafi doveva passare [su quella rotta]. Egli sfuggì all’attentato perchéil capo del Sismi (2), il generale [Giuseppe] Santovito, lo informò [delle intenzioni dei francesi] poco dopo il suo decollo. Così decise di cambiare strada. I francesi videro un aereo che si era messo dietro il Dc9 nella speranza di sfuggire ai radar. Furono loro, con un aereo della marina, a lanciare il missile…».
Decine di commissioni rogatorie rivolte dall’Italia agli altri paesi coinvolti non hanno avuto alcun seguito, fino a queste ultime settimane, suscitando nuovi dubbi. Solo pochi mesi fa, il Belgio ha risposto ai giudici di non aver niente da dire sulla tragedia di Ustica e sui suoi aerei da caccia presenti nella base dell’aviazione a Solenzara, in Corsica, per ragioni di «sicurezza nazionale». I magistrati del tribunale di Roma Maria Monteleone ed Erminio Amelio hanno identificato quindici militari in servizio a Solenzara in quel periodo. Da pochissimo le autorità francesi, dopo avere a lungo sostenuto di non poterli ritrovare, hanno accettato di rispondere alle domande dei magistrati.
Le prime audizioni degli ex militari francesi si sono svolte in aprile. E, per la prima volta in 34 anni, essi hanno ammesso che la sera del 27 giugno 1980 la base di Solenzara non aveva sospeso le attività alle 17 ma a notte fonda. È difficile immaginare che queste dichiarazioni non abbiano ricevuto l’avallo del ministero della Difesa francese, che aveva sempre categoricamente e ufficialmente negato questa possibilità. È ancor più significativo il fatto che i magistrati francesi abbiano accordato ai loro colleghi italiani una seconda serie di audizioni, sottolineando la loro «disponibilità» ad andare oltre tutti i «segreti di Stato», e a collaborare concretamente con l’inchiesta.
Questa svolta potrebbe essere decisiva per risolvere questo intrigo internazionale, che copre un’azione di guerra rimasta impunita, perpetrata in tempo di pace, in un periodo di fortissima tensione politica e militare nel Mediterraneo. E, come nell’Assassinio sull’Orient Express di Agata Christie, dietro la mano del presunto assassino, se ne possono individuare altre. La sera dell’incidente, i controllori radar di Roma-Ciampino (all’epoca tutti militari) vedono sui loro schermi le tracce di diversi caccia sopra il cielo di Ustica. Tracce che hanno origine o spariscono in mare, come se partissero da una portaerei. Sono convinti che sia coinvolta la VI Flotta e telefonano all’ambasciata Usa per avere notizie.
Non sanno che intanto il generale Santovito, direttore del servizio segreto militare (Sismi), ha inviato al suo collega francese, Alexandre de Marenches, direttore del Servizio di documentazione esterna e di controspionaggio (Sdece) (3) un telex urgente – che, come la risposta, non sarà mai ritrovato – per chiedergli: «Cosa avete fatto?» Questo sostiene Francesco Pazienza, braccio destro di Santovito, che aveva assistito a un incontro di quest’ultimo con Marenches e la cui testimonianza figura negli atti istruttori.
L’intrigo internazionale prende forma, mentre l’assassino e i suoi complici sono già impegnati a distruggere le prove. All’alba del 28 giugno, i giochi sono fatti; la partita di poker truccata entra nel vivo. L’ambasciata statunitense fa sapere di non essere direttamente interessata all’incidente, nonostante nella notte abbia ricevuto un insolito telegramma dal vicesegretario di Stato, Warren Christopher, che voleva conferme sulla presenza di cittadini degli Stati uniti a bordo del DC9.
L’Aeronautica italiana avanza l’ipotesi che l’aereo abbia avuto un guasto meccanico, mentre i suoi ufficiali sono a caccia dei nastri dei radar che hanno inquadrato il cielo di Ustica. E il colonnello Gheddafi ordina alla sua ambasciata in Italia di far pubblicare un sorprendente necrologio per commemorare le vittime del disastro.
Nel Mediterraneo la fine degli anni ’70 è incandescente. Con gli accordi di Camp David del 1977 e il riconoscimento di Israele, il presidente egiziano Anuar el Sadat ha fatto una scelta di campo epocale, sfilando il suo paese dall’area di influenza sovietica. Mosca non gliel’ha perdonato. Gheddafi nemmeno. Il leader libico è considerato il nemico numero uno dell’Occidente. Nella lista delle «canaglie» occupa il posto che sarà di Saddam Hussein e poi di Osama bin Laden: il primo.
Un clima di tensione con Gheddafi
L’arsenale di Gheddafi fa paura. Con i proventi del petrolio ha acquistato dei mirages dai francesi e batterie di missili Scud dai sovietici. È cosciente di essere la pedina di uno scontro più ampio, e cerca di approfittarne soffiando sul fuoco. In quello stesso 1980, manda il suo esercito in appoggio a Goukuni Oueddei contro Hissène Habré, sostenuto da Parigi. Oueddei gli ha promesso, in cambio, che il suo paese si unirà con la Libia. I ripetuti scontri con le truppe speciali francesi si trasformano rapidamente in un conflitto non dichiarato ma sanguinoso. Tanto che il presidente Giscard d’Estaing teme non solo di vedersi sottratti i giacimenti di uranio del Ciad, ma anche di perdere la faccia nel suo cortile di casa africano, a qualche mese dalle elezioni presidenziali del maggio 1981.
Nel 2011, in un libro scritto con Giovanni Fasanella (4), dedicato al silenzio della Francia su Ustica e al tentativo di eliminare Gheddafi, il giudice Rosario Priore, che ha indagato per dieci anni sulla strage, parla dell’ostruzionismo francese: «Sia Giscard D’Estaing che [François] Mitterrand si sono chiusi come ostriche, ostinandosi a mantenere una linea di protezione assoluta dei segreti di Stato indipendentemente dal colore politico dei governi coinvolti. Ne ho tratto alcune conclusioni preziose nel corso di un lungo incontro (5) con Marenches. (…) Mi ha detto che le ricerche in Francia non avrebbero avuto risultati in ogni caso, perché se i servizi avevano tentato un’operazione contro Gheddafi, non avrebbero lasciato alcuna trac- cia. Ma ha tenuto a precisare che, secondo lui, il dirigente libico avrebbero dovuto essere neutralizzato, e che questo era un dovere per diversi governi».
E l’Italia? È una moglie stiracchiata fra il marito americano e l’amante libico. Dipende per il 40% del fabbisogno energetico da Tripoli, ha miliardi di commesse e 25mila lavoratori nei cantieri che devono fare grande la Jamahiriya – il regime di Gheddafi. Il governo non può per- mettersi di irritare il colonnello. Quindi, ubbidisce ai suoi diktat. Il Sismi gli salva la pelle in almeno due occasioni: durante la rivolta militare a Tobruk, nell’agosto 1980, e avvertendolo di un imminente bombardamento su Tripoli e Benghazi ordinato dal presidente statunitense Ronald Reagan, nel 1986.
A mo’ di ringraziamento, Gheddafi, per mezzo del suo ambasciatore, minaccia il ministro degli affari Esteri italiano: esige informazioni sugli oppositori libici rifugiati a Roma o Milano, altrimenti chiuderà i rubinetti del petrolio. Il Sismi darà le informazioni. Il colonnello ha già acquisito il 13% delle azioni della Fiat; ha comprato migliaia di ettari di terreni, fabbriche, edifici. Manda sicari per eliminare gli avversari in esilio. L’11 giugno 1980 alla stazione di Milano viene ucciso Azzedin el Heideiri. Gli statunitensi sono furiosi. Era un informatore della Central Intelligence Agency (Cia): ma il Sismi non lo sapeva.
Un improbabile scenario ufficiale
Il colonnello non si accontenta. Pretende che i suoi Mig che vanno a fare la manutenzione a Banja Luka, in (ex) Jugoslavia, rientrino utilizzando le aerovie del Tirreno invece che quelle dell’Adriatico. Vuole testare le difese aeree delle basi francesi in Corsica (Solenzara) e mostrare alla VI Flotta Usa che è in grado di sorvolare le unità che stazionano nel Golfo di Napoli, e anche la base aerea dell’Organizzazione per il Trattato del Nord Atlantico (Nato) a Sigonella. Per riuscirci, deve imporre alla difesa aerea italiana di chiudere gli occhi. E ancora una volta ci riesce. L’ordine non scritto che ricevono i controllori radar è di cancellare le tracce del passaggio di caccia libici «nemici» per non innescare l’allarme del sistema di difesa integrato della Nato.
Un’imperdonabile rinuncia alla sovranità nazionale. Soprattutto, uno schiaffo a due paesi alleati: Francia e Stati uniti. Marzo 1994, agli archivi della base del Sismi a Verona, competente in materia di intelligence sul comando della 5 Allied Tactical Air Force (Ataf) della Nato, basata a Vicenza, uno strano incendio distrugge oltre 2.000 atti relativi al periodo 1975-1989. Fra le carte risparmiate dal fuoco, il giudice Priore troverà memoriali classificati come «ultraconfidenziali» e «segreti» che saranno portati agli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di Ustica.
Gli atti precedenti al 27 giugno 1980 mostrano la violenza della reazione francese alla violazione del patto fra alleati: il prossimo Mig che volerà sul mar Tirreno sarà abbattuto, ammoniscono minacciosi i servizi segreti francesi.
Secondo flashback, 18 luglio 1980. Il ministero della Difesa italiano annuncia che un Mig libico si è schiantato sulla Sila, in Calabria. Sono chiamati da Crotone due medici per l’autopsia sul corpo del pilota, che porta divisa e stivali dell’aviazione italiana; potrebbe trattarsi di uno dei piloti libici formati presso la base dell’aviazione italiana di Galatina, in Puglia.
L’esame avviene nel cimitero di Castelsilano, tra alti ufficiali in divisa e uomini dei servizi che scattano fotografie. Lo stato del cadavere non lascia dubbi: quel pilota non è morto il 18 luglio, ma almeno tre settimane prima. Quasi certamente la sera del 27 giugno, la sera della strage di Ustica. La commissione d’inchiesta guidata da un ufficiale che diventerà capo di Stato maggiore dell’Aeronautica chiude la faccenda sostenendo che, dopo il decollo da Bengasi, il pilota ha avuto un infarto e il Mig ha volato fino in Calabria con il pilota automatico, precipitando dopo aver esaurito il carburante.
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