Erano gli anni Venti del secolo scorso quando una coppia di giovani sposi – lo scrittore George Simenon con la pittrice Tigy – scoprirono l’isola di Porquerolles, un paradiso incontaminato al largo della Provenza (fa parte dell’arcipelago di Hyères), abitato da sparuti esseri umani e da moltissimi uccelli marini. Fu un colpo di fulmine e i due ci tornarono più volte, specialmente di inverno, soggiornando nel piccolo villaggio, abbarbicato a ridosso del porto. Il Clan dei Mahé vedrà un medico tormentato andare in vacanza con la moglie a Porquerolles, e poco dopo ci sbarcherà anche il commissario Maigret, sulle tracce di un assassino (ma il poliziesco Mon ami Maigret, che uscì nel 1949, Simenon lo scrisse in Arizona, forse in preda alla nostalgia «mediterranea»).

Prima dei celebri coniugi, a essere sedotto dai profumi delle pinete e dalla vita selvatica dell’isola, a soli 15 minuti dalla terra ferma, fu il belga François Joseph Fournier. Nato in una famiglia di condizioni modeste, in Messico aveva fatto fortuna grazie alle miniere di oro e argento; così, rientrato in Europa decise di comprare l’isola, quasi come dono per sua moglie, l’inglese Sylvia Johnston Lavis. Era il 1912 e presto Porquerolles divenne una sorta di esperimento sociale attraverso la pratica di un’autonomia cooperativistica (complici le guerre e le crisi economiche che imperversavano sul continente).

Fournier rispettò la natura rigogliosa che circondava il paese abitato, ma trasformò duecento ettari in vigneti (oggi anche Chanel produce vini rosé lì), mentre Sylvia creava posti di lavoro per far fronte al turismo nascente. Ancora oggi, una graziosa dimora sulla strada (rigorosamente sterrata) che porta alla «spiaggia d’argento» mostra il loro nome di famiglia inscritto sulla facciata.

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Ma riavvolgendo il nastro del tempo, Porquerolles riaffiora dalle acque in epoche lontanissime, avvolta in un alone di leggenda. Dicono che proprio qui Ulisse fu costretto a fermare la sua peregrinazione verso un’Itaca evanescente perché la sua barca si incagliò nei bassi fondali sabbiosi. Ma la sua presenza non sfuggì a Poseidone che inviò contro l’eroe greco l’Alicastro, il drago metamorfico con artigli di tigre e denti di coccodrillo che terrorizzava gli isolani. Ulisse non concesse cedimenti alla paura e conficcando il suo coltello nella gola della bestia la uccise, liberando Porquerolles da quella maledizione. Poi, serafico, se ne andò per mare, riprendendo il suo viaggio labirintico verso casa.

E se l’«alieno» è ricordato da Miquel Barceló e messo a guardia dell’entrata di Villa Carmignac per custodire segreti e tentazioni, il labirintico perdersi di Odisseo fra onde e terre sconosciute è riportato in vita nelle sale ipogee e superiori, fino ad approdare – attraverso un disorientamento creativo – in mezzo alla vegetazione del giardino che immerge l’edificio in un’atmosfera silvana, rendendolo un tutt’uno con l’ambiente circostante e disseminando sculture come fossero personaggi mitologici. La mostra – intitolata al mondo onirico dell’irrequieto eroe, Le songe d’Ulysse, a cura di Francesco Stocchi, alla guida del contemporaneo nel Boijmans di Rotterdam e tessitore delle trame del padiglione svizzero in Biennale – è un omaggio agli attraversamenti emozionali e fisici di chi è in cerca di porti e si è lasciato alle spalle la precedente rassegna La mer immaginaire, indagine sul mondo subacqueo e la relazione con la nostra specie. Se gli sguardi si smarriscono in un dedalo di presenze e assenze, anche gli approdi sono miraggi: i visitatori sono invitati a una deriva psicogeografica, a piedi nudi, portando con sé la sensazione della pietra viva a contatto con la pelle ( si gira, infatti, solo senza scarpe e questo avviene sempre, a prescindere dalle esposizioni ospitate).

La Fondazione, che vide la luce vent’anni fa per volere di Édouard Carmignac, oltre a contare su un patrimonio collezionistico di più di trecento opere, che vanno dal dopoguerra ad oggi e su un premio di fotogiornalismo, ha trovato una sua oasi a Porquerolles, luogo di abbandoni e ritrovamenti imprevisti. Il figlio dell’imprenditore, Charles Carmignac dal 2018 gestisce questo tempio dell’arte, costola della Fondazione. E inanella mostre, affidandole alla cura di figure professionali esterne. Stavolta, giocando anche con la collezione (fra i lavori permanenti della raccolta Carmignac in loco troviamo i bellissimi pesci-fontana di Bruce Nauman e, nel parco, i mostri di Ugo Rondinone) e irrorandola con vari prestiti internazionali, Stocchi inventa un reticolo di monumentali installazioni e rimandi di citazioni al cui centro ci sono le vele di un misterioso naufragio (ma l’acqua è prodigiosamente sopra e non sotto): è lo spagnolo Jorge Peris a introdurci nel mezzo di quella tempesta dove le vele, lottando con il vento, disegnano anch’esse un disorientante labirinto.

Non è un caso, dunque, che a inizio percorso, ancora indecisi fra i boschi e la «casa», si possa scegliere se ricondurre il filo della memoria a una collana di ricordi, o lasciarsi andare all’oblio, semplicemente sorseggiando una tisana che promette iniziatici riti di passaggio. Chi opterà per la seconda soluzione, sarà un novello Odisseo, inaddomesticabile viandante, nomade per il mondo.

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Ad attendere per lunghissimi anni un ritorno sempre procrastinato c’è a Itaca Penelope, che l’artista Martial Raysse immagina come un puzzle identitario: è lei a farsi e disfarsi, a esserci e non esserci. Proprio come accade alla mitologica tela, il suo volto non si ricompone mai, lasciando aperta ogni mutazione futura. Per il sudafricano William Kentridge, invece, il viaggio di Ulisse invece è soprattutto un periplo alchemico, un ossessivo scrutare fra le viscere. Un tuffo profondo dentro il corpo dei nostri incerti destini e una misurazione quasi chimica della propria fragilità.

Chi coltiva i sogni a dispetto della ineludibile realtà ha sicuramente la testa fra le nuvole. Ed è sospeso in sfasamenti temporali che contemplano presente, passato e futuro in un intreccio ingarbugliato. Così l’argentino Leandro Erlich, con la sua Cloud galleggiante in una illusione ottica che ne moltiplica la vaporosità all’infinito tra le suggestive mura del Fort Sainte-Agathe (quel suo nuvolario fa parte di un progetto iniziato molti anni fa), ribadisce che le gesta epiche hanno bisogno degli dèi del cielo per avere sorti favorevoli. E quel fluttuare in mezzo alle nubi del fato richiede una musica celestiale, composta per l’occasione da Charles Carmignac e la band Moriarty, nella quale per vent’anni ha suonato la chitarra.