Pordenone, quelle lontane ombre divine
Giornate del cinema muto Il programma del festival, ricco di restauri e sorprese, con l'orchestra dal vivo: da oggi al 14 ottobre
Giornate del cinema muto Il programma del festival, ricco di restauri e sorprese, con l'orchestra dal vivo: da oggi al 14 ottobre
Il programma delle «Giornate del cinema muto di Pordenone» 2023, fruibile anche in streaming, quest’anno è zeppo di titoli curiosi, oltre che di restauri attesi da tempo. È il caso di La divine croisière al quale è stata restituita la parte che raccontava la ribellione, autentica lotta di classe, dei marinai a bordo di una nave maledetta, scena a suo tempo tagliata dalla censura. Questo film, proposto con la partitura di Antonio Coppola, porta la firma di quello che sarà un maestro del realismo pessimista del cinema francese dei Fronti Popolari, Julien Duvivier, che in questa pellicola mette in scena la dura battaglia con le forze della natura, oltre a quella sociale, utilizzando veristicamente i volti autentici degli abitanti del luogo e gli aspri paesaggi della Bretagna.
Commedie invece per aprire e chiudere il festival: Poker Faces (La moglie di mio marito), equivoci e un finale scatenato, accompagnato da musiche jazz con una partitura scritta e diretta da Juri Dal Dan ed eseguita dalla Zerorchestra, per una comica con l’inimitabile Edward Everett Horton nella pre-apertura tradizionale a Sacile e la copia restaurata dell’irresistibile The Pilgrim di Chaplin e Sherlock Jr., il capolavoro di Buster Keaton nel ruolo di un proiezionista sognatore, il sabato in chiusura.
La sezione «Ruritania 2» include quest’anno film tedeschi, spagnoli, francesi con storie di re e regine di immaginarie Ruritanie balcaniche. La dimenticata prima guerra balcanica (Montenegro, Bulgaria, Serbia e Grecia contro l’impero ottomano) e poi la prima guerra mondiale e le complicate vicende dinastiche dei piccoli stati avevano alimentato infatti la curiosità dell’Occidente, che percepiva questa geografia esotica come spazio orientaleggiante e misterioso, tra violenza e sensualità, un mondo che sullo schermo si trasforma in operetta o melodramma, in film di cappa e spada o commedia. Alcuni titoli provengono da Spagna, Francia, Germania, e nel programma vengono accompagnati da cinegiornali coi regnanti balcanici del tempo, a confermare in parte l’origine di queste fantasie che hanno nutrito per secoli le culture di un’Europa marcatamente divisa dalla storia in Est e Ovest. Non poteva mancare la Ruritania hollywoodiana, presente con The Only Thing (Jack Conway) tratto da Elynor Glyn, impreziosito dalla elegante interpretazione dell’aristocratico napoletano Mario Carillo, ovvero Mario Caracciolo, nel ruolo del primo ministro.
Nascosti nelle pieghe del programma ci sono infatti dei connazionali che meritano un cenno a parte, perché ci ricordano che a Hollywood negli anni del muto c’era un discreto numero di italiani, interpreti versatili che popolano ogni genere; e non solo Rodolfo Valentino. Una filmografia importante è quella di Cesare Gravina, musicista amico di Enrico Caruso, che esordisce nel muto nei primi film prodotti da Mary Pickford e che viene proposto qui in Merry-Go-Round (Donne viennesi, 1923) diretto dal ribelle e puntiglioso Eric von Stroheim e da Rupert Julian, che comunque ha eseguito il suo progetto. In questo film, ambientato nel parco dei divertimenti sotto la (simbolica) ruota di Vienna, Gravina interpreta Sylvester, il padre della protagonista, innamorata e vittima della relazione con un conte.
A suo tempo la rivista Picture Play aveva ricordato di Gravina i suoi ruoli di «vecchietti patetici, prostrati dalla vita ma di spirito allegro», citando quale una delle sue migliori interpretazioni proprio questo film: «In Merry-Go-Round offrì allo schermo uno dei suoi momenti più alti. Sicuramente ricorderete il suo vecchio clown che, morente, continua a sorridere ai bambini, facendo i suoi giochi divertenti per non far vedere loro che era sofferente.» Gianni Puccini nel Filmlexicon lo descrisse come «un vecchio basso vizzo, con due occhi molto vivi e una recitazione scarna ed efficacissima».
Un altro artista italiano dello spettacolo che fa carriera a New York è Giuseppe Sterni, che aveva esordito come attore teatrale, apprezzato anche da Renato Simoni, e che lascia l’Italia nei primi anni Venti, dopo aver realizzato (scritto, diretto e interpretato) diverse pellicole come questo La madre (1917) del quale è protagonista accanto a Italia Vitaliani, parente di Eleonora Duse. Nella illustre compagnia milanese di Marco Praga Sterni è stato primoattore, in alternanza con Febo Mari, e ha accompagnato la giovane attrice siciliana Mimì Aguglia nelle sue turné nelle Americhe. Durante la prima guerra mondiale realizza diverse pellicole, incluso il documentario (?) Dalla guerra alla pace. Sembra essere partito definitivamente per New York nel 1922-23, ovvero con l’avvento del fascismo ma anche della crisi del cinema muto italiano, che in pratica ha cancellato i film nazionali dal mercato. Come per quasi tutti gli artisti emigrati, che comunque mantengono ben visibile il loro cognome italiano, è difficile capire se tra essi ci sia stato, come è normale ritenere, qualche antifascista, ma questo è uno dei casi ipotizzabili. A New York il Teatro d’arte di Sterni è stato il laboratorio dove si sono raffinati molti degli interpreti del teatro degli emigrati, che negli anni Trenta danno vita a una vivace scena radiofonica e persino cinematografica, sulla costa est degli Stati Uniti, producendo diversi film in napoletano, siciliano e italiano.
Un altro italiano a Hollywood è Robert Vignola (nato a Trivigno, in Basilicata) attore-regista e sceneggiatore nel cinema delle origini alla Kalem, diventato poi figura di punta alla Cosmopolitan di William R.Hearst, dove dirige alcuni dei più famosi e spettacolari film di Marion Davies, regista presente quest’anno alle Giornate con Love That Lives interpretato da una delle sue attrici preferite, Pauline Frederick. L’amore del titolo è quello materno, mantenuto ad ogni costo da una donna sfortunata che attraversa diverse classi sociali, passando da donna delle pulizie a ricca mantenuta, ma che nel suo cuore ha posto solo per il figlio, fino a gettarsi nel fuoco per lui.
Il (modernissimo e accattivante) manifesto del festival di quest’anno rimanda all’omaggio alla pittrice e designer tessile Sonia Delaunay. Di origini ucraine Sonia Terk aveva studiato arte a San Pietroburgo e in Germania, prima di spostarsi a Parigi nel 1906, quindi non in epoca rivoluzionaria. Qui sposa il pittore Robert Delaunay e assieme al marito lavora a sperimentazioni sul colore e su forme astratte e dinamiche, all’interno di un movimento delle avanguardie definito «orfismo». Con questo approccio crea anche arazzi e tessuti, nei quali abbandona le figurazioni tradizionali proponendo motivi geometrici di diverse combinazioni di colori. Durante la prima guerra mondiale inizia a lavorare per il mondo parigino, in rapido sviluppo, della moda, disegnando abiti dalla linea molto semplice in cui valorizzare i motivi e i colori dei suoi tessuti. (Per farsi un’idea visivamente aggiornata del suo lavoro si può pensare all’optical art nella moda negli anni sessanta, con le forme geometriche, gli scacchi bianchi e neri, i bordi a contrasto e i colori vivaci. Niente di nuovo sotto il sole fashion.) Delaunay discute questa sua peculiare visione che mescola arte d’avanguardia e moda in L’Influences de la peinture sur la mode”, pubblicato nel 1927 e collabora in quegli anni a vari progetti cinematografici dei «film alla moda», una selezione dei quali, come il corto L’Elégance, è presente nel programma delle Giornate, che propongono anche La vertige di L’Herbier e la serie Le petit parigot (1926), in cui è Delaunay costumista.
Questo spazio dedicato al rapporto tra cinema muto e moda si affianca alle conversazioni, iniziate l’anno scorso, alla guida del costumista Deborah Nadoolman (moglie di John Landis, che ha disegnato i costumi di Indiana Jones) che in queste conversazioni permette di comprendere l’importanza dei costumi e dell’abbigliamento in un cinema senza parole, che aveva bisogno di tutto ciò che si poteva mostrare, far vedere, per raccontare le sua storie.
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