Popoli oppressi e migranti nell’opéra ballet di Rameau
A teatro Al Festival del Bayersische Staatsoper Les Indes Galantes di Rameau, regia e coreografia del belga Sibi Larbi Cherkaoui
A teatro Al Festival del Bayersische Staatsoper Les Indes Galantes di Rameau, regia e coreografia del belga Sibi Larbi Cherkaoui
Piombato nel mezzo del Festival del Bayerische Staatsoper, l’attentato di Monaco non ha eccessivamente sconvolto la tradizionale kermesse operistica, in un’annata speciale, visto che il direttore musicale del teatro bavarese, Kirill Petrenko, eletto alla guida dei Berliner Philharmoniker, è de facto diventato la bacchetta più prominente d’Europa.
Il festival, che propone sempre un paio di produzioni nuove e alcune recite dei maggiori successi di stagione, ha offerto al pubblico una chiusura incandescente. Nonostante la tensione acuita dalla strage terroristica – con tanto di presidi di Pegida in centro, cui ha però risposto un grande incontro di preghiera interreligioso in cattedrale domenica scorsa in commemorazione dei fatti di Rouen – Les Indes Galantes di Rameau, regia e coreografia del belga Sibi Larbi Cherkaoui, ha raccolto un vivo successo.
Poteva andare diversamente, dal momento che lo spettacolo, in scena al Prinzeregentheater per quattro recite dal 26 al 30 luglio, presenta un turbinare esaltante di amori e conflitti, ma soprattutto narra di oppressioni, separazioni e migrazioni di popoli, infanzie negate, battesimi forzati, esotismi magici, matrimoni di guerra, bambini recuperati alla dignità della vita con l’istruzione e l’amore, in una singola, volutamente contraddittoria narrazione, che unisce i diversi episodi dei quattro atti con prologo. Merito sicuramente della bravura del cast (Anna Prohaska, Lisette Oropesa e Mathias Vidal in testa) e dei danzatori della compagnia Eastman di Anversa, ma anche del superbo lavoro direttoriale di Ivor Bolton con i complessi di casa, che restituiscono con classe e vivacità lo stile dell’opéra-ballet francese.
Se l’opaca produzione di Un ballo in maschera di Verdi, regia di Johannes Eraht, un allucinato noir con gigantesco scalone hollywoodiano, era quasi solo un veicolo per Piotr Beczala, Riccardo fin troppo leggero, e per la diva di casa Anja Harteros, Amelia svettante e altera, il fuoco d’artificio finale era affidato a Die Meistersinger von Nürnberg. Annullata per ovvie ragioni la diretta su schermo gigante in piazza, l’ultima delle tre esauritissime recite della produzione di David Bösch è stata festeggiata con trenta minuti di applausi. Trasponendo il concorso canoro in una periferia anni Sessanta della Germania ovest, la regia, che a maggio ha diviso la critica, oscilla fra contestazione studentesca e Oktoberfest; la narrazione, fitta di dettagli neoBreughel, è fresca ma piuttosto problematica, con una secca stonatura: il ritorno in scena di Beckmesser che, pistola in pugno, quasi al calar del sipario, minaccia tutti e si uccide.
Sgradevolezza oggi decuplicata rispetto alle recite di maggio Kirill Petrenko era il vero motore dello spettacolo: pulsante di energia e forza drammatica, fluida e curatissima nei dettagli eppure prodigiosa per naturalezza, la sua direzione ha trascinato l’ottimo cast. Applauditissimi Wolfgang Koch, Sachs autorevolissimo, il «divo» Jonas Kauffman Walter di profondità e calore seducenti, Martin Gantner, querulo Beckmesser, Sara Jakubiak, luminosa Eva e gli ottimi Benjamin Bruns e Okka von Damerau, David e Magdalene di rilievo inatteso. Pubblico in delirio, con acclamazioni interminabili per Petrenko, Koch e Kauffman.
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