Le più affascinanti e anche le più determinate figure della mostra Pop South Asia: Artistic Explorations in the Popular – organizzata dalla Sharjah Art Foundation (SAF) con il Kiran Nadar Museum of Art (KNMA) di New Delhi e curata da Iftikhar Dadi, John H. Burris e Roobina Karode negli spazi di Al Mureijah a Sharja (fino all’11 dicembre) – sono le eroine di Chitra Ganesh e di Pushpamala N. Dalle tavole di Tales of Amnesia (2002-2007) esce fuori Godzilla, disegnata dall’artista newyorkese di origine indiana (autrice anche del Queer Power Coloring Book) che da bambina era un’instancabile lettrice dei fumetti pubblicati da Amar Chitra Katha. La Dea Madre Lakshmi, invece, è incarnata dalla stessa Pushpamala N (in altre immagini è Phantom Lady, una criminale, una yogi oppure la Madonna di Velankanni) nella rivisitazione dell’ologramma di Raja Ravi Varma.

Del pittore di Kilimanoor, noto per le sue interpretazioni dei poemi epici Mahabharata e Ramayana, in mostra sono esposte alcune pubblicità degli anni Trenta in cui le divinità indù dialogano con i grandi personaggi della storia (Napoleone), entrando nella vita dei comuni mortali attraverso i calendari della CIBA Ltd o del sapone Sunlight Soap. Ma tornando a Godzilla e Lakshmi sono proprio loro la quintessenza della forza e della ribellione, nel modo in cui ribaltano gli stereotipi sociali femminili che le vorrebbero inclinate all’obbedienza, al silenzio, alla passività. La migrazione/ibridazione iconografica dalla tradizione religiosa induista, con il suo olimpo coloratissimo e sovrappopolato, si diffonde nell’immaginario popolare del subcontinente indiano attraverso la grafica, la pittura e successivamente la fotografia, andandosi a sovrapporre con i linguaggi visivi dell’industria cinematografica indiana, bengalese, tamil e malayam.

Saba Khan, Gymkhana Ladies Swimming, 2021 (corurtesy of the artist)

Il senso immaginifico del reale nei film di Bollywood, Tollywood, Kollywood o Mollywood tra fantasia e sogni, avventura e dramma, è una delle matrici più evidenti della cultura pop di cui sono interpreti moltissime artiste e artisti contemporanei asiatici. La caleidoscopica collettiva Pop South Asia con oltre un centinaio di opere provenienti da collezioni pubbliche e private (oltre a quelle della SAF e del Kiran Nadar Museum of Art che ospiterà l’esposizione nel 2023 ci sono il MAP-Museum of Art and Photography di Bangalore e il Fukuoka Art Museum in Giappone), realizzate con tecniche e linguaggi diversi da artisti multidisciplinari provenienti da Afghanistan, Bangladesh, India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka e dalla diaspora, parte proprio da questa tematica per stimolare una riflessione intergenerazionale che si sposta poi su argomenti socio-politici, tra confini territoriali, tradizione, identità di genere e urbanizzazione.

Aspetti che rispecchiano la consapevolezza, ma anche l’affiorare di un inconscio collettivo che si nutre di citazioni e associazioni. Non è casuale che il percorso della collettiva, nel complesso architettonico sito nel distretto storico della città, custode della memoria delle sue originarie funzioni residenziali (mission della Sharjah Art Foundation è promuovere la ricerca e la sperimentazione nelle diverse discipline dell’arte contemporanea ma anche della tutela del patrimonio storico-artistico locale), inizi con il dipinto di Atul Dodiya dal titolo Gabbar on Gamboge (1997). La tela raffigura i contrasti di una società dominata dalla violenza, in cui realtà e finzione sono ugualmente spettacolari: il protagonista con la pistola in mano è Gabbar Singh (interpretato da Amjad Khan) in Sholay (1975), film cult «curry western». Il ferro da stiro, dipinto sul lato destro, reca le tracce rosse di sangue che cola dai chiodi: non sfugge il riferimento all’iconico ready made Cadeau (1921) di Man Ray (amatissimo dagli artisti della pop art non meno del suo amico Duchamp), potenziale «oggetto di tortura» la cui funzione originaria sarebbe, piuttosto, di migliorare l’aspetto esteriore, quindi la qualità della vita. Il quotidiano è centrale in molte altre opere di Pop South Asia: Hangana Amiri con il grande collage-tessile Bazaar (è stato esposto anche in Italia, in occasione della personale dell’artista alla galleria T293 di Roma nel 2020) propone il ricordo di luoghi che sono nevralgici, sia nella sua vita privata che per la comunità di Kabul, mentre nei Lockdown Posters (2022) di Ayesha Jatoi il linguaggio pubblicitario viene riformulato per creare lavori che si avvicinano alla poesia concreta. Un’importante fonte d’ispirazione per Jatoi sono gli antichi manoscritti dei poeti sufi, studiati quando era studentessa di miniatura al National College of Arts di Lahore. Un corto circuito visivo di avvicinamenti e allontanamenti, quello che si percepisce osservando i tappeti di Baseera Khan (Psychedelic Prayer Rugs, 2017-2018) che recano le scritte «I’m as good as you are» e «I am a body», come pure nei «teatrini» di Anant Joshi con la serie di diorama Happy New Year (2013), nelle architetture componibili di ceramica di Lubna Chowdhary di Certain Time (2021) o nell’atipica doll house di Vivan Sundaram (Touch of Brightness, 1966) in cui l’artista gioca sul senso di sacro e profano inserendo nell’opera una serie di oggetti curiosi e ambigui, tra cui le marionette del teatro Kathputli.

Sundaram, insieme a Naiza Khan e Hangana Amiri è tra gli artisti della 15.ma Biennale di Sharjah (7 febbraio-11 giugno 2023), fiore all’occhiello della Sharjah Art Foundation: Thinking Historically in the Present è il titolo di quest’edizione concepita da Okwui Enwezor prima della sua scomparsa e curata da Hoor Al Qasimi. Un tema presente anche in Henna Hands and its Afterlives (2002-2022), la videoinstallazione di Naiza Khan che è «un film di vita attuale», come conferma la voce narrante. Scrittura e ricamo diventano uno strumento di contestazione per Saba Khan che in Gymkhana Ladies Swimming (2021) usa i kit cinesi per l’hobby del ricamo, ma l’iconografia occidentale rasserenante diventa lo sfondo per raccontare a mezzo punto (o punto croce), storie di molestie e ingiustizie subite dalle donne. Un linguaggio codificato che diventa più esplicito nei poster di protesta dell’artista Lala Rukh che è stata attivista femminista, docente e cofondatrice, nel 1982, della sezione di Lahore del Women Action Forum (WAF). Ma tra utopia e distopia c’è spazio anche per sognare: invita a farlo il fotografo Samsul Alam Helal in Love studio (2012-2013), dove lo studio fotografico «old fashion» nel quartiere di Jurain a Dhaka (Bangladesh) diventa il luogo dove sbizzarrirsi, lanciandosi nei sogni più inverosimili tra i colori saturi dei fiori artificiali e di una natura rigogliosa altrettanto fasulla. In questo Eden surreale non è poi così strano che una capretta posi accanto al cerbiatto e alla tigre dipinti sul fondale, né che un ragazzetto imberbe si faccia ritrarre abbracciato, guancia a guancia, alla silhouette femminile di cartone.