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Pontormo: dare figura ai pensieri

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 26 marzo 2021

Nel 1523 a Firenze si diffonde la peste. Il Pontormo (Iacopo Carucci, 1494-1556) non ancora trentenne, ma assai reputato come eccellente pittore, riceve l’incarico di illustrare con un ciclo di affreschi dedicato alle Storie della Passione di Cristo il chiostro della Certosa del Galluzzo, che si trova poco lontano dalla città. Un incarico accettato di buon grado e che attrae Pontormo. Egli si sente pronto e fortemente motivato a nuove ricerche dedicandosi ad una impresa che, oltre tutto, può svolgere in un luogo appartato ove il contagio meno forse infierisce, e secondo tempi quotidiani stabiliti nel rispetto della regola certosina che torna congeniale al suo carattere.

Lo apprendiamo da Giorgio Vasari. Nella sua Vita di Iacopo da Puntormo si legge che il pittore «gustato quel modo di vivere, quella quiete, quel silenzio e quella solitudine (tutte cose secondo il genio e natura di Iacopo) pensò con quella occasione fare nelle cose dell’arti uno sforzo di studio e mostrare al mondo d’avere acquistato maggior perfezione e variata maniera da quelle cose che aveva fatto prima». Nella narrazione della vita, Vasari torna più volte e con dovizia di precisi riscontri a mettere in evidenza un tratto distintivo della figura di Pontormo: la dimensione solitaria e il silenzio sono essenziali alla piena realizzazione dei propositi che animano la sua arte.

Continua Vasari rammentando come «oltre all’essere Iacopo per ordinario lungo ne’ suoi lavori, gli piaceva quella solitudine della Certosa, egli spese in questi lavori parecchi anni, e poi che fu finita la peste et egli tornatosene a Firenze, non lasciò per questo di frequentare assai quel luogo et andare e venire continuamente dalla Certosa alla città».

Molti studi e saggi critici sono stati dedicati da un secolo in qua e con crescente interesse – dal Clapp al Venturi, dal Toesca al Cecchi, dal Briganti al Berti e al Nigro e al Fedi – alla personalità di Pontormo, taluni intesi a svelare i risvolti patologici (nosofobia, agorafobia?) del suo umore malinconico e atrabiliare, altri le ragioni riposte delle inquietudini di quell’«ingegno rarissimo» (quale lo designò l’abate Lanzi a fine Settecento) che stringeva in un unico plesso la pratica del dipingere e la concentrazione del pensare. Vasari ricorda che «alcuna volta, andando per lavorare, si mise così profondamente a pensare quello che volesse fare, che se ne partì senz’avere fatto altro in tutto quel giorno che stare in pensiero».

«Quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare, non si contentando e non si fermando in alcuno», aggiunge Vasari. E ancora: «alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa».

Sono suggestionato dall’ipotesi che la condotta quotidiana nella quale si mantiene Pontormo, la sua attenzione alla dieta, agli orari, alla regola del giornaliero solitario meditare e operare nell’assoluto silenzio, dipenda dal lungo soggiorno tra i certosini del Galluzzo. Abbia, per lo meno, tenuta quella norma di vita ad esempio. Considerato da questa angolatura risulta illuminante il Diario relativo agli anni dal 1554 al 1556, gli ultimi tre della sua vita, «fatto nel tempo che dipingeva il coro di San Lorenzo» (vi stava lavorando dal 1546).

Ne trascrivo poche righe: «Martedì e mercoledì feci quel vechio, e ’l braccio suo che sta così. Adì 15 di marzo cominciai quello braccio che tiene la coregia in testa, che fu in venerdì, e la sera cenai uno pesce d’uovo, cacio, fichi e noce e once 11 di pane. Mercoledì feci quello resto del putto e ebi disagio a quello stare chinato tucto dì, in modo che mi dolse giovedì le rene». Tucto dì ad affrescare dando figura ai suoi pensieri nell’eremo che Pontormo si è costruito. Scrive Vasari: «avendo egli adunque con muri, assiti e tende turata quella cappella e datosi tutto alla solitudine, la tenne per ispazio d’undici anni in modo serrata che da lui in fuori mai non vi entrò anima vivente, né amici né nessuno».

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