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Pomodori antimafia a Foggia

Storie La cooperativa «Pietra di scarto» prende il nome di un’operazione contro i clan di Cerignola. In un bene confiscato oggi lavorano migranti africani che producono passate e pelati. Senza passare per i caporali

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 25 novembre 2021

Sono trascorsi 25 anni dalla primavera del 1996, quando un gruppo di studenti assieme all’allora parroco don Giacomo Cirulli, diede vita a Cerignola (Foggia) alla cooperativa “Pietra di Scarto”. Di commercio equo-solidale allora se ne parlava poco. La bottega “Stesso Sole” con annessa falegnameria, nel centro storico del comune della valle dell’Ofanto, rappresentò una gran bella novità, divenuta pioniera di ideali di giustizia sociale, di cultura dell’antimafia e di lotta al caporalato. Il tutto in un contesto, come quello della Capitanata, tragicamente segnato dalla presenza di una rete criminale organizzata sin da metà anni ’80. Basti pensare che il Comune di Cerignola in primis è stato sciolto per mafia tre volte.

Qualche giorno fa, per l’anniversario della cooperativa, don Ciotti si è recato sul posto: «Qui si celebra – ha detto – questo innesto tra la coltura, che affonda le sue radici nella terra, e il bisogno di cultura che affonda le sue radici nelle coscienze». La ricorrenza cade nel 25esimo anno di un’altra data importante: la legge 109 del 1996 per il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie.

“Pietra di Scarto”, che prende il nome dal Salmo 119 della Bibbia e conta sei soci, dal 2010 ha sede in un bene confiscato. Percorrendo la statale 16 è visibile la scritta: «Qui la mafia ha perso». È posta in contrada Toro, a circa 7 chilometri dal centro abitato, sull’edificio sottratto al boss Rosario Giordano a seguito del processo “Cartagine” del 1994. Quell’operazione, volta a strappare il potere al clan egemone di Cerignola dei Piarulli-Ferraro, dopo 67 omicidi in sei anni, portò a 83 ordini di custodia cautelare.

Le indagini vennero coordinate da Gianrico Carofiglio, allora pm titolare dell’inchiesta. Il processo si concluse con 53 condanne, di cui 17 ergastoli. Lo stabile, dove da undici anni ha sede la cooperativa, presumibilmente veniva usato dal boss per organizzare il traffico internazionale di stupefacenti.

«L’idea di gestirlo noi – racconta il presidente Pietro Fragasso – nasce da un entusiasmo quasi infantile, un’insana follia determinata da una forte vocazione civile, volevamo sovvertire la visione perbenista delle persone». A maggio del 2010 “Pietra di Scarto”, nel frattempo supportata da un altro parroco, don Nunzio Galantino, oggi vescovo e presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, varcò per la prima volta i cancelli. «Ci scortarono i vigili – ricorda Fragasso – il terreno di 3 ettari era una giungla, c’erano rifiuti, fortunatamente non pericolosi, e animali morti dappertutto. Camminavamo con il machete». Quell’estate venne organizzato il primo campo dell’associazione Libera contro le mafie. Vito Merra, oggi nel cda della cooperativa, era l’unico ad intendersi di campagna. Si appoggiò ad un albero e iniziò a potarlo. In quel momento ha preso avvio la narrazione di una storia diversa, non però scevra di sacrifici.

È nato così il “Laboratorio di legalità” intitolato a Francesco Marcone, il direttore dell’ufficio del registro di Foggia ucciso dalla mafia nel 1995. «Quello che abbiamo oggi – spiega il presidente – è figlio del sacrificio di tanti che hanno camminato prima di noi. Quando si parla di beni confiscati è obbligatorio ricordare Pio La Torre, perché è stato un uomo che attraverso il suo straordinario impegno ha portato a organizzare dal punto di vista penale l’antimafia. Nella legge che porta il suo nome c’è in nuce quella che nell’82 era una profezia: togliere alle mafie i beni equivale a togliere consenso».

A Cerignola il consenso mafioso in questi anni è riuscito a intercettare anche il potere politico, ma la lotta alla mafia non si è arrestata. Di beni confiscati ce ne sono anche altri. «Questa – spiegano i soci di “Pietra di scarto” – era terra di banditi ma è anche terra di persone messe al bando, di vite borderline. Noi abbiamo sempre avuto loro come interlocutori. Sono tante le esperienze legate al mondo della giustizia. Oltre all’azione sul bene confiscato, abbiamo organizzato attività nel carcere di Foggia, un luogo in cui si sente forte l’esigenza di azioni costituzionali affinché non sia solo una reclusione fine a se stessa. È necessario sognare gli altri come ancora non sono. Lo abbiamo fatto anche per quanto riguarda i migranti. Il fenomeno del caporalato è diventato una prerogativa della nostra terra. La nostra ha sempre voluto essere un’azione di politica olistica».
Grazie al finanziamento della Fondazione Con il Sud, ha preso vita il progetto di trasformazione del pomodoro “Ciascuno cresce solo se sognato”. Quello che un tempo era un bunker è diventato il luogo di lavoro per uomini e donne migranti, per la maggior parte provenienti dal Senegal e dal Ghana. Si è creata una rete di autodeterminazione che ha coinvolto anche i produttori biologici. Il consumatore è diventato l’anello responsabile della filiera, pagando il 40% dell’ordine complessivo in anticipo. Sono state così prodotte 40mila bottiglie di passata Pomovero, 10mila vasi di datterino rosso naturale e 10mila di passata di datterino giallo, oltre a 5mila pelati e 5mila spaccatelle. Anche nel ghetto di Cerignola, chiamato Tre Titoli, la cooperativa sta provando a introdurre la cultura della legalità con la coltivazione di un ettaro, iniziata lo scorso anno e affidata a una coppia del Ghana.

«Vedere la piantina che diventa passata – spiega Pietro Fragasso – vuol dire essere testimone di un percorso frutto della fatica di una squadra, che è orientata a raggiungere un unico obiettivo, la giustizia sociale». “Pietra di Scarto” la persegue con vari progetti, come il laboratorio di caramelle in carcere o quello artistico finanziato dalla Regione Puglia e ispirato al sociologo Danilo Dolci “La gente non è suolo ma semente”. E con la preservazione della memoria: è questo il caso del legame istaurato con la famiglia di Hyso Telharaj, originario dell’Albania e ucciso a Cerignola l’8 settembre 1999 a 22 anni, per non essersi piegato alla violenza dei caporali. Oggi il suo nome figura nel piccolo parco che la cooperativa ha dedicato alle vittime di mafia, come simbolo di riscatto e rinascita.

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