Editoriale

Polizia «in armi» contro il nemico invisibile

Manifestazioni L’Italia è sulla soglia di una sanguinosa Intifada? Dobbiamo attenderci una ondata di violenti scontri di piazza in tutto il paese? A giudicare dalle posizioni espresse dall’Associazione nazionale funzionari di […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 28 ottobre 2015

L’Italia è sulla soglia di una sanguinosa Intifada? Dobbiamo attenderci una ondata di violenti scontri di piazza in tutto il paese? A giudicare dalle posizioni espresse dall’Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp) e dalla sua segretaria Lorena La Spina in occasione della presentazione, a palazzo Chigi, di un libro (Dieci anni di ordine pubblico, ricerca a cura di A. Forgione, R. Massucci, N.Ferrigni), si direbbe proprio di sì. In uno degli autunni più tiepidi della recente storia italiana, l’Anfp vede addensarsi le nubi della guerriglia urbana, ma, come nei titoli dei film «poliziotteschi» di una volta, «la polizia è disarmata», denunciano, o meglio non armata a sufficienza per fronteggiare le nuove insidie del nemico. Questa volta, infatti, non è di organico e turni che si parla, quanto proprio di armi. Cosa desiderano, dunque, i nostri funzionari di polizia? Sul piano difensivo uniformi e protezioni più adeguate, scudi leggeri e resistenti. Su quello legislativo norme più severe contro chi «abusa del diritto di manifestare» (Daspo, etc.). Su quello offensivo, proiettili di gomma, fucili marcatori (armi che sparano sfere ripiene di vernice per «marcare» i manifestanti violenti ai fini del riconoscimento), manganelli Tonfa, nonché una task force specializzata nello stanare, non si sa con quali metodi, i «guerriglieri» intrufolati nella massa dei manifestanti.

I proiettili di gomma, è noto, possono provocare danni assai gravi, così come i manganelli con anima di ferro. Quanto ai fucili marcatori, sappiamo, come si è visto il primo maggio a Milano, che i cosiddetti black bloc sono soliti disfarsi degli indumenti indossati durante gli scontri. Cosicché la «marcatura» servirà più a fabbricare la vittima di turno, scelta a caso tra i manifestanti, che a non a individuare il responsabile di qualcosa: macchiato, dunque reo e non viceversa. Ma quel che è più grave è che questa logica di escalation degli armamenti (che può comprendere lacrimogeni sempre più tossici) rischierà di alimentarsi da entrambe le parti. Così come la sanzione spropositata di reati lievi spingerà a commetterne di sempre più gravi. Che l’ordine pubblico significhi anche e soprattutto trattativa, rinuncia alle zone rosse e alle città proibite, a sgomberi violenti privi di mediazione politica, garanzia di non essere esposti all’arbitrio di uomini in divisa, è completamente estraneo all’orizzonte di questa logica belligerante (non priva di toni vittimistici) che, non a caso, difende strenuamente l’anonimato di chi la pratica, rifiutando il codice identificativo per gli agenti impiegati in operazioni di ordine pubblico.

A motivo di questa pretesa di riarmo si insiste sulla presenza (volutamente esagerata) di «professionisti della violenza». Ma si tratta, il più delle volte, di «incappucciati» occasionali, animati più che da uno status professionale da quei contesti di contrapposizione e di scontro che una saggia gestione dell’ordine pubblico dovrebbe saper ridurre al minimo.

I dati di questa presunta Intifada italiana, constano di 9490 manifestazioni nel 2014. 24 al giorno quelle che comporterebbero questioni di ordine pubblico e cioè dispiegamento di forze di polizia. Se si pensa che vi rientrano episodi come i ripetuti presidi davanti al Miur di viale Trastevere a Roma, così come i malati di Sla davanti al Ministero delle finanze, le trasferte provocatorie di Matteo Salvini o i comizi politici della più varia natura, non sembrano davvero, per un paese democratico di 50 milioni di abitanti, cifre da destare allarme o da suggerire escalation militari. Basterebbe una cultura democratica un poco più evoluta di quella che circola dalle parti dell’Anfp.

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