Cultura

Politiche dell’antropocene

Politiche dell’antropocenePhilippe Descola

BIENNALE DEMOCRAZIA Anticipiamo parte dell’intervento che l’antropologo francese terrà domenica nell'ambito dell'incontro torinese. Se è vero che possiamo vivere in una cosmologia non condivisa da tutti, quali saranno le conseguenze? Il naturalismo ci induce a considerare i territori che occupiamo come sistemi di risorse, dunque diventano pattumiere dell’umanità. In altri modelli è invece la terra che possiede gli umani

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 6 ottobre 2021

Sono sempre più numerosi i cittadini del mondo consapevoli di essere entrati in una nuova era in cui gli umani sono diventati una forza naturale con un forte impatto sul sistema terra, un’era chiamata comunemente antropocene.
Cosa differenzia l’antropocene dall’antropizzazione? La causa principale dell’entrata nell’antropocene è lo sviluppo, dapprima in Europa occidentale e poi nel resto del mondo, di un modello che è stato chiamato, di volta in volta, capitalismo industriale, rivoluzione termodinamica, tecnocene, modernità, era dei rifiuti o naturalismo. Quest’ultimo è il termine che io preferisco. In cosa consiste?
Appare per la prima volta nella storia dell’umanità con l’affermazione della differenza tra umani e non umani per natura e non più per grado. Una differenza basata sul fatto che gli umani e i non umani condividono proprietà chimiche e fisiche universali, ma se ne differenziano per le loro disposizioni morali e cognitive. Il risultato è l’apparizione di una natura esterna, rispetto alla quale gli umani hanno assunto una visione dall’alto, per conoscerla meglio e tenerla sotto controllo.

QUESTO È IL PRINCIPIO direttivo dell’ontologia naturalista. Invece di lunghe catene di relazioni incrociate – tra umani, piante, animali, divinità, paesaggi, antenati, ecc. – abbiamo ora solo un blocco centrale, quello degli umani, origine di ogni inventività, di ogni decisione; un blocco che è nettamente dissociato dal mondo della natura, che ora preferiamo chiamare «ambiente».
È così che si è entrati nella grande illusione degli ultimi due secoli: la natura vista come risorsa inesauribile che avrebbe reso possibile una crescita infinita, grazie al perfezionamento incessante delle tecniche. Altre civiltà non hanno conosciuto un’analoga evoluzione ed è solo da poco più di un secolo che alcune di esse hanno adottato un modello di sviluppo incontrollato, indotto dal naturalismo.
Lo studio interculturale delle modalità di oggettivazione dei non umani pone un problema non secondario: in effetti i popoli non moderni tendono ad attribuire a piante e animali molte caratteristiche della vita sociale. Questi popoli a lungo definiti «naturali» non sono per niente ingabbiati nella natura, perché gli oggetti e gli esseri che li circondano si adeguano in realtà a molte regole della società; e una natura dotata di molti attributi dell’umanità non è più natura. Come dimostra l’antropologia, numerose società nel mondo non separano la cultura e la natura come se fossero due realtà incompatibili: questa è una distinzione recente nella storia dell’occidente di cui dovremmo veramente fare a meno, se si riflette sui mezzi che l’umanità ha usato per oggettivarsi nel mondo. Non bisogna stancarsi di ripetere quindi che la nostra cosmologia è una condizione storica recente e non un riferimento eterno.

MA QUALI SONO ALLORA le conseguenze della consapevolezza che possiamo vivere in una cosmologia singolare, non condivisa da tutti? Una delle conseguenze del naturalismo è che ci induce a considerare i territori che occupiamo prima di tutto come sistemi di risorse e allora questi diventano vere e proprie pattumiere dell’umanità. In altri modelli di identificazione ancora molto vivi sulla superficie della terra e che gli etnologi contribuiscono a far conoscere, invece, è la terra che possiede gli umani e non il contrario.
Farò due esempi molto diversi a questo proposito in cui l’autonomia ontologica dei territori si afferma a seguito di conflitti con le forze predatrici del capitalismo. Il primo caso è quello dei Sarayaku, una comunità amerindia dell’amazzonia equatoriale minacciata di espoliazione dalle compagnie petrolifere. In un documento presentato alla COP 21 del 2015, i suoi delegati domandavano a nome della comunità che venisse riconosciuto il territorio che abitavano e dichiaravano di condividerlo con una gran quantità di altri esseri. Chiedevano quindi il suo riconoscimento come una nuova categoria di area protetta che identificavano con un’espressione che in Quechua significa «foresta vivente». La loro spiegazione è che la foresta è composta di esseri viventi e delle relazioni di comunicazione tra di essi. Tutti gli esseri, dalle piante più piccole fino agli spiriti protettori della foresta, sono persone che vivono in comunità e svolgono la loro esistenza con modalità simili a quelle degli umani. Ciò che è interessante notare di questo documento è che non parla di diritti da riconoscere alla natura in genere, dato che la natura è una pura astrazione. Il soggetto del diritto politico qui non è rappresentato né dagli umani né dai non umani, ma dalle relazioni assolutamente singolari che essi intessono tra loro.

SEMPRE IN SUDAMERICA, ma nelle Ande, troviamo l’esempio di un altro modo di vedere le relazioni tra un collettivo umano e uno non umano. Una manifestazione di protesta, organizzata a Cuzco in Perù contro un progetto di sfruttamento minerario in una montagna, ce ne dà un’idea precisa. I manifestanti provenivano dai villaggi autoctoni situati sui fianchi dell’Ausangate, una catena montuosa che gli amerindi considerano la loro principale divinità e protestavano contro la concessione ad una compagnia mineraria del diritto di sfruttamento del monte Sinakara, una delle vette della cordigliera. Le comunità si opponevano al progetto perché la miniera avrebbe avuto un impatto negativo sui loro pascoli in quota, e questa è già una buona ragione, ma soprattutto perché l’Ausangate non avrebbe accettato che venisse aggredito il monte Sinakara e questo lo avrebbe spinto a vendicarsi.
Il problema è che le pratiche delle multinazionali provocano la totale distruzione della montagna, mentre l’estrazione tradizionale mantiene vive le relazioni, a volte difficili, con gli spiriti che vivono all’interno della montagna, a cui sono dedicati i sacrifici e con cui gli abitanti cooperano.

QUINDI IN AMAZZONIA, sulle Ande e in altre parti del mondo, scontri analoghi contro i quadri ideologici del naturalismo rivelano l’autonomia ontologica dei territori, da cui consegue la rivendicazione di una dipendenza dei collettivi umani e non umani dai luoghi che abitano. Niente ci vieta di immaginare che l’autonomia ontologica dei territori si possa tradurre anche in un’autonomia giuridica e che si stabilisca un diritto di questi nuovi soggetti politici. Non tanto come esseri singolari ma come ecosistemi o ambienti di vita, indipendentemente dalla loro natura: bacini idrici, massicci montuosi, città, quartieri, litorali, zone ecologicamente sensibili, mari, stretti, ecc. Si tratterebbe di una vera ecologia politica, di una cosmopolitica che non si limiterebbe a stabilire diritti intrinseci alla natura, ma avrebbe lo scopo di far sì che i luoghi di vita, con tutto ciò che li costituisce, compresi gli umani, diventassero oggetti politici.

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SCHEDA. DA OGGI A DOMENICA OLTRE 100 APPUNTAMENTI

Philippe Descola interverrà in collegamento domenica 10 ottobre alle 14.30 a Torino nel Complesso Aldo Moro / Aula Magna – via Verdi. Sarà in dialogo con Barbara Carnevali e Luca Savarino presenti in sala
L’evento sarà trasmesso anche in streaming gratuito sul sito di Biennale.
Giunta alla sua settima edizione, la Biennale Democrazia si terrà a Torino (in presenza e online) da oggi a domenica 10 ottobre, con oltre 200 presenze tra relatori e relatrici da tutto il mondo per un totale di quasi 100 incontri, dialoghi conversazioni e presentazioni con protagonisti di rilievo internazionale. Tra i tanti le tante interverranno: Gustavo Zagrebelsky, Marco Revelli, Elena Cattaneo, Jared Diamond, il premio Nobel Esther Duflo, François Jullien, Lea Ypi, Stephen Holmes, Rachele Borghi, Andreas Weber, Marta Dassù, Ilaria Capua, Nadia Urbinati, Fatoumata Diawara. Per informazioni, prenotazioni e biglietti: biennaledemocrazia.it

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