«Se metti due economisti in una stanza, ottieni due opinioni, a meno che uno di loro non sia Lord Keynes, nel qual caso ottieni tre opinioni». Dobbiamo intenderci su politica fiscale e politica economica. La politica fiscale riguarda le decisioni del governo in merito a entrate e spese fiscali; da un lato il governo raccoglie denaro (imposte sul reddito, sul valore aggiunto, sulle transazioni, ecc.), coerenti con gli obbiettivi di politica economica, dall’altro lato queste risorse servono per infrastrutture, istruzione, sanità, assistenza sociale, beni di merito.

La Costituzione è chiarissima: l’art. 3 rammenta che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, l’art. 53 sottolinea che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche”. Sebbene sia utile ricordare che nel lontano 1973 erano presenti tante aliquote e scaglioni (Brancaccio), ciò oscura il ruolo della spesa pubblica e, peggio ancora, veicola l’idea che le tasse sono sempre troppo alte. Il problema fiscale europeo e nazionale è la base imponibile troppo stretta. Allo Stato servirebbero maggiori entrate per non meno di 30 mld di euro, per come è organizzata la spesa. La politica economica è un termine più ampio e contempla tutte le leve di governo. Al netto della non banale discussione circa la politica monetaria, la politica economica si occupa di lavoro, struttura dell’economia, investimenti, ricerca & sviluppo e politiche industriali, le quali sono affiancate da politiche settoriali. Questi temi sono delicatissimi e non possiamo diventare degli idraulici: aumentiamo gli investimenti e l’economia ripartirà; ogni euro di investimento realizzato dalle imprese italiane si traduce in importazioni di beni capitali dall’estero: più investiamo e più arricchiamo gli altri paesi.

Lo Stato necessità di tante entrate fiscali e di una adeguata spesa pubblica per correggere le disfunzioni del mercato e indirizzare il sistema economico; dovrebbe migliore l’allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico; dovrebbe assicurare che la crescita del Paese sia in linea con la crescita dell’innovazione tecnologica e della demografia. Lo Stato, inoltre, dovrebbe realizzare una corretta distribuzione del reddito per evitare che lo stesso reddito (ricchezza) si concentri nelle mani di gruppi sociali ristretti. È un aspetto importante, ma è bene ricordare che l’intervento redistributivo deve realizzarsi nel mercato. Le tasse agiscono sempre a margine del reddito di mercato.

Nonostante le tante idee degli economisti, il mainstream coinvolge molti, la “sinistra riformista rivoluzionaria” (Riccardo Lombardi) dovrebbe pur farsi delle domande di senso sulle sfide da affrontare. Nessun paese europeo può misurarsi con l’economia statunitense e cinese. Il patto europeo è brutto, ma dall’Europa si deve pur passare senza lisciare il pelo a chi vuole uscire dall’euro, senza dimenticare il drammatico tema demografico; si deve affrontare ora, diversamente scomparirebbe l’infrastruttura sociale dell’Italia, così come dei paesi capitalisti maturi. Delineate le sfide di senso, dobbiamo affrontare i nodi di struttura dell’economia nazionale.

Spesa pubblica: l’attuale allocazione della spesa pubblica, 1.150 mld, non è efficace e spesso le nuove misure si aggiungono alle attuali missioni senza una vera analisi di costi-benefici; sarebbe il caso di riscrivere la matrice della spesa pubblica definendo bene chi fa che cosa. Entrate fiscali: è necessario coordinare entrate e spesa pubblica, nella consapevolezza che il vero problema è l’allargamento della base imponibile. Pubblica Amministrazione: servono non meno di 600.000 nuovi tecnici che possano far funzionare meglio la macchina pubblica. Le risorse destinate al taglio dei contributi sarebbero più che sufficienti per finanziare l’assunzione di nuovi dipendenti pubblici. Politica industriale: la sofferenza dell’industria italiana è nota, come la sua despecializzazione.

Dobbiamo cambiare il motore della macchina senza fermarla e per fare questo dobbiamo industrializzare quel poco (tanto) di ricerca pubblica per modificare la specializzazione produttiva del Paese, ormai piegata al solo costo degli input; è una sfida enorme perché non basta fare più investimenti. Contratti nazionali del lavoro: se vogliamo modificare la distribuzione di reddito tra capitale e lavoro è necessario riscrivere la matrice dei contratti nazionali (CNNL), avvicinandoli sempre di più alla classificazione Istat dell’attività economica, aumentando il numero dei lavoratori coinvolti e quindi il potere contrattuale.