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Politica economica europea, che fare?

Politica economica europea, che fare?Illustrazione di Arnal Ballester per "Quel che conta" di Ruth Vilar (Orecchio acerbo, 2011)

In un contesto internazionale di crescente incertezza, l’Europa presenta una situazione di disoccupazione e deflazione che preoccupa per la potenziale instabilità politica e sociale. La pretesa di rilanciare la crescita […]

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 5 settembre 2014

In un contesto internazionale di crescente incertezza, l’Europa presenta una situazione di disoccupazione e deflazione che preoccupa per la potenziale instabilità politica e sociale. La pretesa di rilanciare la crescita attraverso l’austerità si è dimostrata, come peraltro previsto, come lo strumento che ha indebolito l’impianto economico tanto da risultare il mezzo attraverso il quale la recessione si è estesa anche ai paesi più austeri.

L’attuale classe dirigente europea, pur segnata dal disastroso (per lei) risultato elettorale, non sembra mutare sostanzialmente i suoi orientamenti di fondo, anche se vi sono segnali per una gestione più «flessibile» del passato. Vanno in questa direzione la proposta di Draghi sulla necessità di un ruolo maggiore della politica fiscale, l’impegno di Junker di rilanciare la crescita e l’occupazione in Europa, la nuova agenda di politica economica di Renzi nel programma Europa, un nuovo inizio della Presidenza Italiana del Consiglio dell’Ue; si tratta comunque di iniziative da realizzare, come esplicitamente dichiarato, «nel quadro di importanti riforme strutturali».

In presenza di una strategia fondata su una politica fiscale restrittiva e una politica monetaria accomodante, le condizioni depresse della domanda e l’incertezza sull’evoluzione futura innalza il rischio di credito deprimendo il finanziamento del settore non-finanziario; ne deriva la spinta a ricercare all’estero sia gli sbocchi alla propria produzione, sia le opportunità di investimento a scapito degli investimenti interni. Come previsto, la politica di austerità ha sospinto l’economia e la società in un circolo vizioso recessivo dove la deflazione sociale e la sopravvalutazione del cambio ha pesanti effetti sui soggetti economicamente più deboli; è dubbio che un processo avvitatosi così su se stesso possa invertire la tendenza attraverso una «limitata flessibilità» delle politiche economiche.

Di fronte ad esiti lontani dalle attese, la risposta politica è che «bisogna perseverare» nel mettere ordine nell’economia. Non si può sostenere che le posizioni ufficiali dell’Unione Europea non riconoscano la crisi sociale in corso, ma certamente l’azione al riguardo si presenta debole come attesta lo scarto tra le proposte contenute in Europa2020 e gli strumenti utilizzati per contrastare la crescente disoccupazione, povertà, precarietà. Andrebbe invece attribuita assoluta priorità a una politica dell’occupazione che promuova la crescita di posti di lavoro socialmente e ambientalmente desiderabili accompagnata da una politica del welfare che, avendo come bussola la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, contenga impegni altrettanto prescrittivi di quelli imposti dal fiscal compact. Un social compact che sia una prospettiva comune sul welfare (sui diritti del lavoro, previdenza e assistenza sociale e abitativa, tutela della salute, diritto all’istruzione) che abbia al centro un sistema articolato di salario minimo, un piano di assicurazione sociale riguardante tutti i potenziali lavoratori, un sostegno sistematico dei redditi più bassi, anche nella forma di un reddito di esistenza. L’obiettivo è quello di contrastare l’attuale concorrenza (fiscale, salariale, normativa) al ribasso tra i paesi-membri la quale, per attrarre capitali dall’estero, deprime l’accumulazione produttiva e i conti pubblici dei propri partner e riduce le risorse pubbliche necessarie ad affrontare le tensioni sociali che essa provoca. Alla competitività istituzionale va sostituita una cooperazione solidale a sostegno di quell’aspirazione di civiltà che, con il suo modello sociale, l’Europa dovrebbe incarnare.

La politica di valorizzazione del lavoro e di promozione sociale necessita di una coerente accumulazione, di una politica industriale non confinata alle politiche della concorrenza. La performance industriale europea di lungo periodo richiede una trasformazione dell’apparato produttivo in senso socialmente e ambientalmente sostenibile con investimenti pubblici in particolare nelle attività a conoscenza intensiva, elevata competenza e buona occupazione nei settori della tecnologia dell’informazione e comunicazione, della tutela dell’ambiente, delle energie rinnovabili. Oltre a stimolare la domanda europea, questi interventi dovrebbero rilanciare l’accumulazione industriale necessaria a riassorbire gli attuali squilibri esterni all’interno dell’eurozona. È l’investimento pubblico, e non i salari, a costituire la variabile di aggiustamento dell’economia.

Per quanto riguarda la politica macroeconomica europea essa va ridefinita: una politica fiscale meno rigida, una politica monetaria diversamente accomodante, una politica finanziaria di riregolamentazione.

Il fiscal compact va rivisto, mettendo in discussione il concetto di deficit strutturale che non si è dimostrato – nelle sue basi concettuali e applicative – adeguato come guida della politica macroeconomica. Non essendo il mercato in grado di garantire livelli accettabili di occupazione, il bilancio pubblico deve tornare ad essere strumento di governo della domanda aggregata con il compito di sostenere un processo produttivo riqualificato. Va ampliata la dimensione del bilancio europeo e ridefinita la struttura del prelievo fiscale, armonizzando l’imposizione fiscale diretta, rafforzando la progressività delle aliquote, non solo per contrastare la concorrenza sleale, ma per riattivare la redistribuzione richiesta da una società welfare-led; anche considerato che il favore goduto finora dai profitti e dalle rendite non ha garantito un’adeguata accumulazione interna, né quantitativamente né qualitativamente.

L’intervento pubblico va finanziato a livello europeo mobilizzando i fondi delle istituzioni esistenti, ricorrendo alla monetizzazione della banca centrale, sfruttando la sua moral suasion sul credito bancario. Per quanto essa non possa trascurare la stabilità finanziaria, la liquidità creata va riorientata verso il circuito industriale, verso l’attività produttiva anche con una diretta monetizzazione dei titoli emessi dai soggetti non-finanziari per finanziare la loro spesa. Ciò vale per il settore pubblico, per le istituzioni finanziarie impegnate nei piani di investimento europei, per le imprese private i cui crediti siano cartolizzati dalle banche. Ne sarebbe favorito il processo di reflazione per riportare l’inflazione a livelli più desiderabili. La ristrutturazione dei debiti pubblici va favorita dalle istituzioni europee; il loro riassorbimento va facilitato, oltre che con l’espansione del prodotto, con forme di mutualizzazione quali l’emissione di titoli a firma collettiva in modo da impedire il concentrasi della speculazione sui paesi finanziariamente più deboli. Vanno regolate le pratiche speculative della finanza, con l’imposizione fiscale sulle transazioni finanziarie, i controlli sui movimenti di capitali con i centri finanziari offshore, il blocco dei rapporti con i paradisi fiscali; va reintrodotta la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento.

In presenza di politiche di austerità che promuovono una società strutturalmente più disuguale, la risposta politica deve essere «bisogna cambiare» per evitare il definitivo deterioramento della tradizione costituzionale europea fondata sull’eguaglianza nei diritti e nei doveri di tutti i cittadini. L’attuale politica economica europea non è infatti una politica congiunturale, ma è la gestione consapevole di una transizione verso un modello di società europea di mercato sulla cui prospettiva non vi è un dibattito esplicito, e tanto meno democratico. La visione alternativa di politica economica non può essere ridotta alla mera strumentazione tecnica, ma va interpretata quale espressione di una prospettiva di società fondata sull’inclusione sociale e sullo sviluppo delle persone e come tale impone di ridefinire i meccanismi di produzione-distribuzione del reddito al fine di sostenere il sistema di welfare, anche se a costo di un ridimensionamento della crescita.

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