Cultura

Poetica e politica delle infrastrutture

Poetica e politica delle infrastruttureFederica, scontrinista alla Biblioteca nazionale di Roma (part.), 2017 – © Francesco Capponi, «Quattrocento scontrini», stampa termica su scontrini usati

Tempi presenti Questi sistemi sociali e tecnici sono forse l’aspetto che definisce il capitalismo contemporaneo. Eterogenei per caratteristiche e modi di funzionamento entrano in gioco di continuo nel corso delle nostre vite. Si tratta degli «strumenti» attivi quando ci muoviamo, comunichiamo, ordiniamo online un libro o una pizza o ci emozioniamo guardando un film in streaming. Docente di architettura a Yale, l’autrice privilegia l’indagine su come tutto ciò operi attraverso lo spazio, nelle trasformazioni urbane o nello sviluppo della banda larga e delle connessioni

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 6 marzo 2020

Un segnale da non trascurare: la prestigiosa Fondazione Friedrich-Ebert ha conferito uno dei due premi annuali al volume Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana (per l’Italia, Einaudi, 2019). Esito di un ampio programma internazionale di ricerca cui partecipano diversi studiosi italiani, l’analisi dell’economia fondamentale ha il grande pregio di combinare efficacemente la produzione di conoscenza con la riflessione politica che quell’apprendimento dischiude. Fondamentale, infatti, è quell’insieme di attività economiche che fornisce beni e servizi indispensabili a tutti i cittadini (dalla salute, alla mobilità; dall’energia elettrica alla rete idrica e così via), che chiama evidentemente in causa l’azione pubblica nelle sue varie articolazioni, nonché le molteplici forme di auto-organizzazione dei cittadini stessi. Si tratta cioè di infrastrutture che contribuiscono significativamente alla configurazione delle nostre forme di vita quotidiana.

LE INFRASTRUTTURE, non solo quelle inscrivibili nell’economia fondamentale, hanno un ruolo cruciale. Per riprendere quanto scriveva Mark Fisher del capitalismo, esse sono megastrutture impersonali ed astratte e, allo stesso tempo, anche quella rete materiale e immateriale che non potrebbe funzionare senza la nostra cooperazione (connessione, come diremo meglio). Assai eterogenee per caratteristiche materiali e processi di funzionamento, entrano in gioco continuamente, quando ci muoviamo, quando comunichiamo, quando ordiniamo online un libro o una pizza o ci emozioniamo guardando un film in streaming e così proseguendo.

LA CENTRALITÀ di questi sistemi socio-tecnici è forse diventato l’aspetto che caratterizza la fase contemporanea del capitalismo: delle infrastrutture ci occorre una politica ed una poetica. Abbiamo cioè necessità di comprenderne a fondo le caratteristiche materiali, le specificità tecniche, i rapporti (ed i conflitti) che intercorrono tra i diversi soggetti – spesso sia pubblici sia privati – che danno forma alle loro attività. Ma abbiamo altrettanto bisogno di indagare il modo in cui, utilizzando quelle infrastrutture per fare cose nel e del mondo, un insieme di cose assai eterogeneo ma profondamente innervato dal principio del dominio sul mondo, le infrastrutture facciano a loro volta qualcosa di noi, della nostra concezione del rapporto con gli altri e, più in generale, con l’ecosistema di cui le nostre vite sono parte integrante.

La traduzione del libro di Keller Easterling, Lo spazio in cui ci muoviamo. L’infrastruttura come sistema operativo (Treccani, pp. 312, euro 21, traduzione di Andrea Migliori) costituisce un contributo prezioso in questa direzione. «Microonde che rimbalzano tra miliardi di telefoni cellulari. Computer che si sincronizzano e container che racchiudono, conservano e calibrano la produzione e il trasporto delle merci su scala globale. Carte di credito spesse 0,76 millimetri che scivolano nei lettori dei bancomat di tutto il pianeta. Viviamo in un mondo i cui segni distintivi, onnipresenti e apparentemente innocui testimoniano l’esistenza di una infrastruttura globale».

OGGETTO effettivo dell’analisi, questa infrastruttura globale è indagata per approfondimenti circoscritti, ma con l’obbiettivo di rintracciare le «disposizioni» che emergono come effetto sistemico della loro interrelazione, vale a dire il «potenziale di azione» che le infrastrutture dischiudono o precludono. L’autrice insegna architettura all’Università di Yale e dunque privilegia l’indagine sul modo in cui l’infrastruttura globale opera su e attraverso lo spazio, condizionando ad esempio le trasformazioni dell’organizzazione urbana o lo sviluppo della connessione, per terra e per mare, alla banda larga del continente africano.

Easterling ricostruisce le «forme di sovranità molteplici» che configurano il potere ibrido nominato nel titolo originale (Extrastatecraft): liberatisi «di qualsiasi legame con i processi legislativi tradizionali, i sistemi dinamici dello spazio, dell’informazione e dell’energia generano forme di ordinamento de facto a una velocità così elevata che nemmeno le forme quasi ufficiali di governance riescono a inquadrarle sotto il profilo legislativo».

ESEMPLARE, in tal senso, il software spaziale della zona. Erede di importanti esperienze nel passato, le attuali Zone economiche speciali (ma esistono molte definizioni di questo «fatto sociale formato nello spazio») sono passate dalle 79 (in 25 paesi; 800 mila occupati) della fine degli anni Settanta, alle 3500 della metà degli anni 2000 (130 paesi; 66 milioni occupati). Un software spaziale la cui funzionalità alle logiche socioeconomiche dominanti tende ad imporlo come modello della metropoli contemporanea, plasticamente capace di accogliere e compenetrare qualsiasi programma residenziale, economico o culturale che sia, con il vantaggio di espellere dalla forma urbana quelle circostanze di attrito che storicamente insorgono in essa. Ma l’analisi della Easterling insegue l’infrastruttura globale ancora più in profondità. Un intero, illuminante, capitolo è dedicato al modo in cui le nostre forme di vita sono profondamente infrastrutturate dagli standard prodotti dal «parlamento per antonomasia» dell’Extrastatecraft, vale a dire l’International Organization for Standardization, meglio nota come Iso.

Dallo spessore già ricordato delle carte di credito al passo della filettature delle viti, dai parametri tecnici di un file jpeg al sistema di identificazione tramite Isbn di libri, riviste o altro, questa «organizzazione di organizzazioni» di natura privata ha allargato il proprio raggio d’azione ai campi della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, della responsabilità sociale e così via. Il caso degli standard di qualità, al centro del capitolo, è esemplare: si introducono forme di controllo centrate su meccanismi procedurali privi di ogni riferimento ai contenuti (la qualità non è definita in nessun passaggio degli standard relativi ad essa) e si impone su scala universale un meccanismo di coordinamento sociale centrato sul modello del contratto privato, che esautora sempre più il potere legislativo degli Stati.

Un lavoro indispensabile per mettere in cantiere una Kulturkritik in grado di sottoporre al pensiero critico (politica e poetica, si diceva) un capitalismo che si avvale di un codice, la connettività in quanto imperativo socioculturale imprescindibile nel paradigma del «mondo a domicilio», che presuppone una sincronizzazione assai sofisticata tra l’infrastruttura in quanto meccanismo tecnico e logistico e l’infrastruttura dell’esperienza coerente con quel paradigma.

UN CODICE che ha una propria profondità storica, anch’essa da includere nel cantiere (si veda a questo proposito, Imaginaries of Connectivity: The creation of novel spaces of governance, a cura di Lobo-Guerrero, Alt e Meijer, 2019), ma che assume oggi un’intensità inedita. A margine, occorre notare che, per quanto renda il testo piacevolmente accessibile nel suo complesso, la traduzione si prende talvolta libertà eccessive rispetto all’originale, incorrendo anche in inesattezze di una certa rilevanza e spingendo a tenersi accanto la versione in inglese.

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