Plinio il Vecchio, ambiente e arte, effetti di un’enciclopedia antica
Il bimillenario: mostra a Como La città natale dello scrittore naturalista ragiona sui riflessi anche attuali della sua eredità, proponendo una quarantina di opere e un nuovo spazio multimediale
Il bimillenario: mostra a Como La città natale dello scrittore naturalista ragiona sui riflessi anche attuali della sua eredità, proponendo una quarantina di opere e un nuovo spazio multimediale
Accade talvolta che la memoria di un personaggio storico sia strettamente legata al luogo di morte. È questo il caso di Gaius Plinius Secundus, noto come Plinio il Vecchio, il quale perse la vita intorno ai cinquantacinque anni durante la tragica eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Le circostanze del decesso, raccontate nella lettera del nipote Plinio il Giovane a Tacito – divenuta un cult della letteratura latina – hanno avuto grande risonanza grazie all’impatto provocato sulla cultura europea dalla scoperta, a metà Settecento, delle antiche città di Pompei, Ercolano e Stabia, le cui stupefacenti rovine furono «sigillate» per secoli da una spessa coltre di ceneri e lapilli. L’epistola ha tramandato la data dell’eruzione (24 agosto) – ora sostituita dal 24 ottobre secondo una contestata ipotesi, che si basa sul rinvenimento di un’iscrizione a carboncino in una domus pompeiana – e la celeberrima immagine della nube levatasi dal vulcano che assume la forma di un pino.
Se Plinio il Vecchio trapassò sul litorale di Stabiae nella «notte più nera e più fitta di qualsiasi notte» è a Como che, nel 23 o 24 d.C., vide la luce. In occasione del Bimillenario Pliniano, è dunque nella città lombarda che la Fondazione Alessandro Volta ha promosso la mostra Il catalogo del mondo: Plinio il Vecchio e la Storia della Natura, visitabile fino al 31 agosto. Curata da Gianfranco Adornato – docente di Archeologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – con il coordinamento artistico del Comitato Nazionale per le Celebrazioni dei duemila anni dalla nascita di Plinio il Vecchio, la rassegna ripercorre le vicende del cittadino Novocomensis mettendo in risalto l’eccezionale fortuna della sua opera nei secoli e la sua attualità nella società contemporanea, impegnata in una profonda riflessione sulla salvaguardia dell’ambiente e sul rapporto dell’uomo con la natura.
La mostra si svolge nelle prestigiose sedi dell’Ex Chiesa di San Pietro in Atrio e del Palazzo del Broletto – con un allestimento ricercato firmato dall’Architetto Paolo Brambilla – coinvolgendo differenti luoghi attraverso un percorso open-air, fino al nuovo spazio multimediale Vis Comensis, che ha aperto per la prima volta al pubblico in questa occasione. Il percorso espositivo presenta oltre quaranta opere provenienti da istituzioni museali quali le Gallerie degli Uffizi, i Musei Vaticani, la Biblioteca Palatina – Complesso monumentale della Pilotta, il Museo Archeologico di Firenze – Direzione Regionale Musei della Toscana, il Museo Archeologico Nazionale di Venezia – Direzione Regionale Musei Veneto, l’Opera della Primaziale Pisana e il Museo Palatino – Parco Archeologico del Colosseo, e dalle principali istituzioni cittadine come la Biblioteca Comunale di Como e la Diocesi di Como. Come spiega lo stesso Adornato «attraverso una galleria di ritratti imperiali e di ricostruzioni di alcuni luoghi iconici della Roma di età Flavia, il visitatore è invitato a comprendere il ruolo di Plinio nella società del suo tempo, la sua carriera politica e militare, il rapporto con il potere, i numerosi viaggi in Europa, ovvero quel background che è alla base delle vaste conoscenze messe in campo nella stesura dell’opera, già apprezzata e consultata dagli autori contemporanei. Il volgarizzamento da parte di Landino e le edizioni a stampa – continua lo studioso – rendono evidente la pervasività della Naturalis Historia nella cultura europea».
Le cinque sezioni offrono al pubblico alcuni capolavori dell’arte antica, già «accessibili» all’autore comasco nel contesto urbano di Roma o menzionati nelle sue opere storico-artistiche inerenti al mediterraneo greco. Specialmente degna di nota è la selezione di gemme, conservate alle Gallerie degli Uffizi, che dischiudono uno stupefacente microcosmo. Alcuni di questi esemplari sono messi in relazione con il testo pliniano per illustrarlo e spiegare da una parte la grandiosità di questi oggetti della natura, dall’altra la perizia di chi li ha realizzati. La mostra è arricchita da opere di artisti contemporanei che richiamano l’eredità di Plinio il Vecchio, come lo scultore Fabio Viale, che partecipa con alcune delle sue iconiche sculture, sulle quali sovrascrive nuovi valori attraverso una tecnica di «tatuatura» da lui stesso messa a punto. Particolarmente significativo, in questo quadro, è il Laocoonte (2020), un’originale replica del famoso gruppo statuario conservato presso i Musei Vaticani. Riportato alla luce nel 1506 in un’area dell’Esquilino dove si trovano i resti delle Terme di Plinio, l’antica scultura venne da subito identificata con l’opera descritta da Plinio come «superiore a ogni altra». Ricorda ancora Adornato nel bel catalogo edito da 24 Ore Cultura, che fu proprio il rinvenimento del Laocoonte a restituire autorevolezza al racconto pliniano. Il dialogo con il contemporaneo è rappresentato al meglio da tre serie di Cy Twombly, l’artista statunitense che visse a lungo a Roma (dove morì nel 2011), confrontandosi in modo stringente con la mitologia, la poesia e la tradizione classica: Natural History II, Six Latin Writers and Poets and Poets e Five Greek Poets and a Philosopher.
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Il cranio di Plinio e l’epopea d’un ritrovamento tra archeologia e pittoresco
A gennaio è stata annunciata la scoperta, a Bacoli, di una villa del I secolo d.C., ubicata nel promontorio dove sorgeva il Porto di Miseno e si trovava alla fonda la flotta istituita da Augusto verso il 27 a.C. I media, imbeccati dalle roboanti dichiarazioni del sindaco del comune campano, non hanno resistito alla tentazione di identificare i resti dell’ampio edificio che domina la baia con la residenza di Plinio il Vecchio. Secondo una ricostruzione visionaria, dall’attuale località di Punta Sarparella il Praefectus Classis Misenensis avrebbe assistito all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., prima di salpare alla volta di Stabiae. Sebbene la struttura in opus reticulatum assuma rilevanza per la comprensione dell’insediamento, solo il prosieguo delle ricerche potrà svelare l’eventuale attinenza delle vestigia con l’ammiraglio. Ma, al principio del secolo scorso, quest’ultimo fu già protagonista di un eclatante caso archeologico.
A riferire la vicenda nel volumetto Plinio il Vecchio. Il mistero del cranio ritrovato (Artem, pp. 124, € 9,00) è Carlo Avvisati, giornalista di lungo corso che ha raccontato l’archeologia vesuviana dalle pagine del Mattino, cimentandosi altresì in pubblicazioni erudite su alcuni aspetti della vita quotidiana a Pompei. Il 20 settembre del 1900, negli «scavi privati» che si svolgevano dal 1899 nella proprietà dell’ingegnere Gennaro Matrone in contrada Bottaro (allora in territorio di Torre Annunziata) – un’area che doveva costituire il quartiere di Pompei connesso al porto sul fiume Sarno, in cui erano stati messi in luce tabernae e magazzini –, riemersero gli scheletri di cinque fuggiaschi. Uno di essi era disteso in posizione elevata rispetto agli altri mentre il cranio, ricoperto dalla cenere indurita, poggiava sulla colonna di un porticato. Il defunto indossava una pesante collana d’oro di 75 maglie, bracciali e anelli preziosi. Al suo fianco gli operai recuperarono un gladio col manico ornato di conchiglie e una brocca.
Matrone, che nella temperie della scoperta del Tesoro di Boscoreale (venduto clandestinamente e ora conservato al Louvre) sperava di trarre vantaggio economico dai rinvenimenti affermò che – sulla base di quanto tramanda Plinio il Giovane della morte dello zio nella celebre lettera a Tacito – si trattava delle spoglie di Plinio il Vecchio. Avvisati narra con dovizia di particolari e attraverso un piccolo corredo di immagini d’archivio l’epopea del presunto cranio dello scienziato – oggi esposto al Museo Storico dell’Arte Sanitaria di Roma –, coinvolgendo il pubblico in una storia rocambolesca, popolata di personaggi pittoreschi (fra cui una contessa con poteri paranormali) e illustri archeologi.
Se l’autore non ambisce a risolvere il «mistero», egli prova nondimeno a fare chiarezza sull’affascinante ma avventata attribuzione, comparando le differenti ipotesi. Nel saggio vengono analizzati anche i risvolti della comunicazione sensazionalistica, che a Pompei non cessa di provocare clamorosi fraintendimenti, a discapito della disciplina archeologica e del buon giornalismo.
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