Agli occhi di chi si occupa di libri da qualche decennio, l’aggettivo «leggendario», usato quasi sempre a sproposito, non pare esagerato per Bernard Pivot, che se n’è andato lunedì 6 maggio, il giorno dopo avere compiuto 89 anni. Per chi non lo sapesse, dal 1975 al 2001 Pivot è riuscito infatti a dimostrare ai francesi e al mondo intero che si può – o si poteva – parlare di libri a un pubblico vastissimo senza tanti fiocchi e lustrini.

Gli ingredienti dei due programmi da lui ideati e condotti, Apostrophes e Bouillon de culture, erano semplicissimi: sedute intorno a un tavolo, alcune persone (o a volte una sola) conversavano più o meno amabilmente, stimolate dalle battute solo all’apparenza ingenue dello stesso Pivot. Al centro, in ogni puntata, un tema o un autore, e un’unica regola: tutti i partecipanti dovevano avere letto i libri di cui si sarebbe parlato.

Che fossero altri tempi, lo dimostrano non solo i milioni di telespettatori che assistevano ogni settimana alla trasmissione, ma anche o soprattutto i nomi degli invitati. Almeno alcuni vanno citati: Vladimir Nabokov, Marguerite Yourcenar, Susan Sontag, Georges Simenon, Pierre Bourdieu, François Truffaut, Serge Gainsbourg. E si potrebbe continuare a lungo.

Questo non vuol dire che tutti amassero Apostrophes e la conduzione di Pivot. Come ha ricordato su Libération Mathieu Lindon, fra i detrattori ci fu Gilles Deleuze, che nel 1985 su L’autre journal scrisse: «È terribile quello che accade ad Apostrophes. È un programma di grande forza tecnica, per come è organizzato e impostato. Ma è anche lo stato zero della critica letteraria, la letteratura trasformata in uno spettacolo di varietà. Pivot non ha mai nascosto di amare il calcio e la gastronomia. La letteratura è diventata un gioco a premi».

Il giudizio è in parte ingiusto (perché mai la passione per la buona tavola e lo sport sarebbe incompatibile con la capacità di esercitare il senso critico in letteratura?), ma soprattutto, quarant’anni dopo, suona arcaico. Sappiamo tutti cosa è oggi la televisione, e come anche in Francia una trasmissione di oltre un’ora sui libri in prima serata sarebbe inconcepibile.

Eppure, l’idea che i libri non sono una merce come le altre deve essere ancora diffusa oltralpe, sennò non si capirebbe il senso della forte opposizione a una misura in teoria studiata per sostenere l’editoria francese. Ai primi di aprile un decreto ha infatti rovesciato una legge degli anni Settanta, in base alla quale era vietato far passare in televisione annunci pubblicitari di libri. In un’intervista a Les Échos, ripresa in parte su Publishing Perspectives da Éric Dupuy, la ministra per la cultura Rachida Dati ha spiegato che l’obiettivo è di «incoraggiare i francesi a varcare la soglia di una libreria… a comprare un bestseller e ad andarsene con altri tre libri sotto il braccio».

Ma la reazione è stata diversa da quella che Dati si aspettava. Il Syndicat National de l’Edition, l’ente che raccoglie più di settecento case editrici, ha chiesto senza mezzi termini che la norma venga abrogata, scrivono Brice Laemle e Nicole Vulser su Le Monde, e lo stesso sdegno ha dimostrato il Syndicat de la librairie.

I motivi della rivolta, li ha spiegati bene su Libération David Piovesan, studioso di economia del libro: «Questo decreto spalanca le porte ai gruppi più potenti per promuovere i loro libri, i loro contenuti e le loro idee», ma per sostenere davvero l’editoria ci vuole altro: «Più programmi dove giornalisti e critici letterari discutano di libri come oggetti culturali, più tempo di intermediazione intelligente per mettere in evidenza ciò che premi letterari o social network rendono invisibile».
Qualcosa come Apostrophes, forse?