Lavoro

«Più ricorsi che referendum»

«Più ricorsi che referendum»Una protesta contro il Jobs act

Jobs Act I giuristi della Fiom si preparano alla battaglia giudiziaria contro l'abolizione dell'articolo 18, demansionamento e controllo a distanza

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 19 marzo 2015

Ancora molto lontani da individuare testi di possibili quesiti referendari, i giuristi della Fiom stanno però scaldando i motori sui ricorsi da presentare contro il Jobs act. La pattuglia di avvocati che ha rifilato a Marchionne le più grande sconfitte della sua vita – il reintegro degli iscritti Fiom a Pomigliano e la sentenza della Corte costituzionale sull’interpretazione dell’articolo 19 dello statuto usato per escludere la Fiom da tutti gl stabilimenti dell’ex Fiat – è pronta a combattere nelle aule di tribunale italiane ed estere contro i decreti attuativi di Renzi e Poletti.

Molti di loro fanno parte anche della consulta Cgil e qui arriva il punto di contatto con la confederazione. Il ricorso a livello europeo sarà fatto a nome della Cgil e si baserà sugli articoli 30 (Tutela in caso di licenziamento ingiustificato) e 31 («Condizioni di lavoro giuste ed eque» per quanto riguarda demansionamento e videosorveglianza) della carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sul piano interno invece appena arriveranno casi di licenziamenti sarà possibile chiamare in causa «il principio di eguaglianza» fissato dall’articolo 3 della costituzione e l’articolo 2106 del codice civile che prevede come le sanzioni impartite dal datore di lavoro al lavoratore debbano essere proporzionate «all’infrazione» e dunque non possono essere subito il licenziamento, come da abolizione di fatto dell’articolo 18.

Sul referendum invece gran parte della Cgil è contraria avendo ancora presente il precedente negativo del 2003 quando il quesito che doveva allargare l’articolo 18 a tutti, appoggiato dall’allora segretario Guglielmo Epifani – e non da Cofferati – non raggiunse il quorum.

Ieri però la pattuglia di giuristi si è dedicata di più alla dissertazione sulle storture del Jobs act, dei suoi effetti e sui contorni del nuovo statuto dei lavoratori. Elena Poli ha denunciato «l’abbattimento dell’architrave dei diritti: i diritti non sono tali se non sono rivedicabili senza timore di ritorsione», la «subordinazione del lavoro all’impresa in un’operazione di de-costituzionalizzazione del lavoro» con «un ribaltamento della piramide della democrazia economica».

Per Franco Focareta invece «il nuovo statuto dei lavoratori deve partire da una nuova definizione delle fattispecie della subordinazione» alla base della quale ci sia «l’organizzazione del lavoro nell’impresa»: «le tutele devono aumentare all’aumentare della subordinazione», in questo quadro «i lavoratori autonomi devono essere tutelati dalle discriminazioni» e «il lavoro precario deve costare di più di quello a tempo indeterminato».

Per Alberto Piccinini per smascherare «il trucco e la fregatura del contratto a tutele crescenti» «una via può essere proporre che nel 2017, quando scadranno gli sgravi per le assunzioni e comincerà la caccia grossa ai lavoratori, una legge obblighi le imprese che licenziano a ridare allo Stato i soldi ricevuti».

A chiudere il convegno è stato poi il maestro di tutti loro: Umberto Romagnoli. Il suo intervento è stato come al solito spiazzante: «Riscrivere lo statuto dei lavoratori è una sfida da far tremare i polsi, ma sarebbe inutile se nel frattempo il sindacato non cambia, decidendo di rappresentare anche precari e autonomi».

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