Più lavoro, più povertà
Libri Vivian Abenshushian: "Fate fuori il vostro capo: licenziatevi!"
Libri Vivian Abenshushian: "Fate fuori il vostro capo: licenziatevi!"
Mentre preparava la tesi di laurea sulla narrativa messicana della città, Vivian Abenshushan si accorse che stava descrivendo uno spazio senza viverlo del tutto, che le mancava il contatto con la strada e abbandonò la scrittura per darsi a lunghe passeggiate urbane. Poi, anni dopo, capitò di nuovo: Vivian Abenshushan, scrittrice messicana, classe 1972, ormai caporedattrice di un’importante rivista, decise di lasciare il cammino battuto e tornare alla libertà creativa; di abbandonare la cultura inscatolata, la letteratura domesticata, la scrittura su commissione e le scadenze impellenti per rifugiarsi nell’ozio, etimologicamente inteso; di rifiutare il burnout, lo stress lavoro-correlato, e vivere, finalmente, lontano dall’ufficio. Da quest’esperienza, solo in apparenza ordinaria, sorgono gli scritti raccolti in Fate fuori il vostro capo: LICENZIATEVI! , un titolo da pamphlet che è tutta una dichiarazione d’intenti, ispirato a uno stencil visto sulle pareti di Buenos Aires che provoca all’autrice una vera epifania. Il saggio pubblicato dalla torinese Eris Edizioni e tradotto magistralmente da Francesca Bianchi, raccoglie con criterio e innegabile destrezza editoriale gli scritti, pubblicati sulla web www.escritosdesocupados.com e rilasciati su licenza creativa BY-NC-SA (di attribuzione, non commerciale e non opere derivate): un corpus eterogeneo di riflessioni, diari, digressioni sul lavoro e, in particolare, sul lavoro culturale, nell’era della crisi globale. Partendo dall’assunto che «lavoriamo sempre di più per stare sempre peggio», la Abenshushan investiga gli orizzonti desolati ai quali i meccanismi di produzione capitalistica ci hanno condotto, con un’attenzione speciale alla letteratura e alla scrittura. Nella prima parte del libro «Esuli del tempo lento», l’autrice si addentra in una carrellata di fonti letterarie: dal biblico fratricidio tra l’uomo faber Caino, agricoltore il cui tempo vitale è scandito dalla produzione agricola, e l’uomo ludens di Abele, il pastore, nomade per definizione, un essere errante, geloso della sua indipendenza dalle regole sociali e dedito all’otium, la scrittrice lascia discendere quei precetti divenuti capisaldi della cultura occidentale del lavoro come missione di vita, da l’ora et labora a «Il tempo è denaro» di Benjamin Franklin. Impostazioni culturali che se da un lato hanno garantito il progresso, dall’altro hanno alimentato la follia dell’iperproduzione e il carrierismo, banalizzando e svuotando di senso le attività del tempo libero alle quali dedichiamo ormai un tempo esiguo e talvolta completamente automatizzato dalle nostre vite. Il tributo a quegli autori che hanno parlato della lentezza in termini di recupero del piacere contro l’egemonia della velocità, vero tiranno del nostro reale , è impaginato su due colonne, quasi a suggerire la relatività del tempo e sfocia in «Dimissioni», la parte più autobiografica del libro: nel recupero del suo tempo vitale la Abeshushan ha avuto un figlio e ha fondato anche una casa editrice, la Tumbona Ediciones, i cui criteri di pubblicazione rispondono esattamente a quelli della sua rivoluzione. Il capitolo diventa anche il contenitore del suo distacco dalla scrittura per come-ormai troppo spesso- la intendiamo: una ridefinizione a colpi di penna di un’arte che per sua natura soffre della velocità dove, per provarne la libertà, la scrittrice gioca di nuovo con l’assetto grafico del testo, spezzandolo con spaziature e grassetti inusuali in un saggio. È la messa in pratica di «un’interruzione della linea narrativa e discorsiva» che attraversa la pagina con storie di tragico sfruttamento lavorativo (dalle maquiladoras messicane alle aziende manifatturiere di Shenzen, dove gli operai si tolgono la vita) che come redattrice conosce e in parte condivide. Vivian Abenshushan si licenzia e inizia a scrivere i pensieri che comporranno un «contro saggio» come lo definisce nell’ultima parte del suo libro, in cui in venti punti, la scrittrice analizza come scrittura e industria siano mondi inconciliabili, proprio perché se inteso nell’ottica di mercato questo binomio non può che generare redattori schiavi, scrittori troppo occupati e quindi poco liberi di fare letteratura e non il surrogato della stessa al quale l’industria mainstream ci ha abituato. A rimetterci è il concetto di saggistica, per esempio, considerata erroneamente il genere più commerciale, ma che si riduce a una «laboriosa dattilografia su commissione che oggi infesta le librerie». Una confusione che investe anche il lettore, i cui gusti risultano appiattiti e che talvolta, privato di quella curiosità sovversiva che è alla base di ogni volontà di conoscere e sapere, smette di leggere. Più discorsivo nella parte centrale «Quelli che disobbediscono», che analizza esempi felici di autonomia e resistenza al sistema (d’arte, di informazione, di accesso alla cultura e persino di alimentazione), il libro è un’audace prova stilistica costruita su misura per le idee che contiene: colmo di citazioni ben integrate nel discorso e mai didascalico, è chiaro e avvincente nonostante il discorso eterogeneo, sempre ben argomentato e soprattutto libero da quel lessico ormai consunto e quasi posticcio delle speculazioni antisistema. Un esempio chiaro di come il processo di creazione letteraria e, in fondo, la parola, possano considerarsi il primo spazio di creazione dove attuare una concreta rivoluzione del sapere e soprattutto del saper essere, per rompere la monotonia delle attività imposte, tra le quali il lavoro come fondamento della cultura dominante, che alimentano una realtà ormai votata all’autodistruzione.
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