Se pensa alla modernità pensa alle piante. Una soluzione al caos climatico la indica negli alberi. E anche per la società e la politica ha da proporre dei «fito-rimedi». Stefano Mancuso, professore di arboricoltura all’Università di Firenze e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale, è un narratore entusiasta dell’intelligenza delle piante e della loro capacità di suggerire le soluzioni ai problemi dell’umanità.

Professor Mancuso, lei è direttore scientifico della prima edizione del «Pianeta Terra festival, una rivoluzione per la sostenibilità» che si apre oggi a Lucca. Perché questa iniziativa?

Questo festival nasce perché, a mio giudizio, non ci sono in Italia luoghi di discussione significativi per parlare di temi ambientali. Ci tengo a sottolineare che non è un festival soltanto scientifico. Gli scienziati raccontano del riscaldamento globale o della riduzione della biodiversità da decenni. Tuttavia, i risultati sono stati irrilevanti perché il linguaggio della scienza non circola granché, non è in grado di cambiare i comportamenti delle persone né di indurre consapevolezza. Abbiamo pensato che un festival in cui si parlasse di questi temi, ma li si affrontasse utilizzando soprattutto la potenza amplificatrice dell’espressione artistica, poteva avere un senso. Del riscaldamento globale, riconosciuto a livello scientifico come il più grande problema che l’umanità abbia mai avuto, si parla in maniera superficiale, come di un luogo comune. Invece è necessario riportare questo problema al centro del dibattito. É un esperimento.

Si parla in maniera non adeguata di temi ambientali anche perché in Italia il movimento ambientalista è poco incisivo?

Direi che il dibattito su come risolvere i problemi causati dalla nostra aggressione all’ambiente è carente anche nei paesi europei dove ci sono partiti Verdi abbastanza forti, come Germania e Francia. Si parla di cosettine che hanno un impatto purtroppo irrilevante.

Nel sottotitolo del festival c’è la parola rivoluzione…

Rivoluzione è ciò di cui abbiamo bisogno. Prendiamo il riscaldamento globale: se continuiamo ad avere questo stesso approccio ininfluente – e la riprova è che i livelli di concentrazione di CO2 aumentano – è chiaro che ci stiamo dirigendo verso un futuro poco piacevole.

Il clima si può salvare con questo modello di sviluppo basato sulla crescita economica?

Io sono molto laico e pratico, è  ovvio che il problema dell’aumento della CO2 è legato al sistema economico, alla produttività. Quando noi diciamo a una nazione devi ridurre la quantità di CO2 stiamo dicendo devi ridurre la tua ricchezza. Noi però dovremmo veicolare un messaggio diverso, che non è di riduzione della ricchezza ma di aumento della felicità. La questione sta in questi termini: se non facciamo niente, nei prossimi anni i danni provocati dall’aumento della CO2 saranno molto superiori all’aumento di produttività e ricchezza di un paese. Meglio agire oggi. L’aggressione all’ambiente ha il suo punto iniziale nell’atto predatorio dell’uomo. Noi siamo il distillato dell’animalità, abbiamo la necessità di predare e consumare risorse che non sono però infinite. Quello che dobbiamo fare è re-immaginare il rapporto che abbiamo con il pianeta e con gli altri esseri viventi. Altro che transizione ecologica: qui ci vuole una conversione ecologica, e dobbiamo farla in un tempo rapidissimo.

Nei suoi libri illustra i portenti delle piante, capaci di «percepire l’ambiente con una sensibilità maggiore di quanto sappiano fare gli animali». Dal punto di vista delle piante, quanto è grave la crisi ambientale che stiamo attraversando?

Certamente anche le piante sono in sofferenza: abbiamo tassi di estinzione che sono tra le mille e le 10 mila volte superiori al normale. Tutta la vita soffre. Ma quando diciamo stiamo distruggendo la vita del pianeta, questo non è corretto. Una cosa che stiamo facendo è la distruzione della nostra specie. Una volta che la nostra specie dovesse eliminarsi, il resto della vita ne gioverebbe e continuerebbe a diffondersi sul pianeta.

Ma se la temperatura aumentasse di 4/5 gradi, come negli scenari peggiori, che ne sarebbe delle foreste tropicali?

Questo sarebbe lo scenario di un pianeta completamente diverso. Certo, le foreste tropicali dove stanno ora non ci saranno più, ma le avremmo qui, fra la Germania e la Svezia, si sposterebbero. Le piante hanno superato cambiamenti climatici dovuti a condizioni naturali ben più gravi. Siamo noi uomini che abbiamo una storia così breve, solo 300 mila anni, ad avere problemi enormi di adattamento.

Lei sostiene che ci vorrebbero mille miliardi di nuovi alberi nel mondo per assorbire la CO2 in eccesso. C’è abbastanza spazio sulla terra?

Ma certo che c’è abbastanza spazio per gli alberi, basterebbe volerli piantare. Se anche non ci fosse, e, ripeto, non è il caso attuale, cosa potremmo fare? Consideriamo che il 50% della terra abitabile viene usata per l’agricoltura. Di questa superficie agricola, che equivale a circa 5 volte l’estensione degli Stati Uniti, l’80% la utilizziamo per la produzione di prodotti animali, dai quali ricaviamo solo il 20% delle calorie e il 23% delle proteine. Dal restante 20% delle terre, dove coltiviamo piante, ricaviamo invece l’80% delle calorie. Cosa vuol dire? Non sono un fanatico, non penso che domani dobbiamo diventare tutti vegetariani. Ma se il pianeta riducesse il suo consumo di prodotti animali anche solo di un quarto libereremmo abbastanza terra dove mettere ben più di mille miliardi di alberi. Non è una soluzione definitiva, ma ci permetterebbe di guadagnare tempo, circa 50 anni, quello che ci serve. È difficile, lo so bene, ma non impossibile.

A proposito di proteine alternative a quelle animali. Cosa ne pensa degli alimenti ottenuti da prodotti vegetali fermentati o dei cibi sintetici?

Se si tratta di lavorazioni che permettono di aumentare il valore nutritivo di alcuni cibi, perché no? Sarei favorevole anche alla carne sintetica, soprattutto se prodotta con sistemi vegetali. Ma non sono un esperto: certo, ne va valutato l’impatto.

I progetti di mega-piantumazioni vengono criticati da organizzazioni come Oxfam che temono ricadute negative per le popolazioni per la produzione di cibo o per l’impatto sul valore fondiario, soprattutto laddove piantumare serve alle multinazionali per compensare le loro emissioni. Come risponde a queste critiche?

Sul tema delle compensazioni bisognerebbe discutere molto: spesso con questa pratica si va dalla inefficacia più assoluta alla truffa più enorme. Però una cosa va detta: o noi mettiamo in atto delle soluzioni, o tra 30/40 anni saranno le popolazioni più fragili a subire le conseguenze della nostra inazione.

Nel suo immaginario botanico c’è spazio per le piante transgeniche?

Nel mio immaginario non servono. Le piante transgeniche hanno un solo obiettivo: aumentare la produzione. Ma noi non abbiamo questa necessità: quando si dice che dobbiamo produrre piante transgeniche perché sennò le persone muoiono di fame, si dice una cosa falsa. Abbiamo tanta di quella terra che potremmo nutrire il doppio della popolazione attuale. Le piante transgeniche sono funzionali ad un tipo di agricoltura industriale che, secondo me, è uno dei fondamentali mali del nostro tempo. Va detto che la rivoluzione verde ha permesso di migliorare le rese e di ridurre la fame nel mondo. Ma oggi non vedo più la necessità di incrementare la produzione. Per me è anche una questione etica: le piante vengono considerate come mezzi di produzione, mentre sono esseri viventi a cui va riconosciuta dignità.

Lei ha scritto che si fa un uso «inquietante» degli erbicidi, come dei pesticidi. Esistono soluzioni alternative alla chimica di sintesi? Si fa abbastanza ricerca?

Il problema è proprio la ricerca di questi metodi alternativi: sebbene sia aumentata negli ultimi anni, è una frazione irrilevante di quella che viene fatta a favore dell’agro-industria.

La perdita di biodiversità ha raggiunto livelli che superano la soglia di sicurezza, l’uniformità genetica è sempre più accentuata, l’industria sementiera è concentrata in poche multinazionali. Lei, come botanico, non si sente minacciato?

Certo che mi sento minacciato! Quello di cui lei parla è un abominio, la trasformazione di una parte significativa della vita del pianeta in risorsa per i nostri capricci, per l’insensata ricerca di ricchezza. Se fosse per i nostri bisogni lo capirei, ma noi non abbiamo bisogno di tutto questo.