Più astenuti, meno eletti
Il dibattito intorno al tema dell’astensionismo, che ha visto interventi preoccupati di organi di stampa e di intellettuali di diversa collocazione, sembra, a pochi giorni da quel voto, essersi arenato. […]
Il dibattito intorno al tema dell’astensionismo, che ha visto interventi preoccupati di organi di stampa e di intellettuali di diversa collocazione, sembra, a pochi giorni da quel voto, essersi arenato. […]
Il dibattito intorno al tema dell’astensionismo, che ha visto interventi preoccupati di organi di stampa e di intellettuali di diversa collocazione, sembra, a pochi giorni da quel voto, essersi arenato.
Le critiche ai partiti, alla loro degenerazione, al loro progressivo allontanamento dai bisogni e dalle speranze degli elettori, si sono dispiegate in abbondanza.
Alla fine, come sempre accade, si torna ai temi ordinari e i nuovi livelli di astensionismo vengono di fatto digeriti come fatto fisiologico. Se ne riparlerà alla prossima occasione elettorale.
Allora ci confronteremo con i dati attuali, ormai attestati quasi dappertutto sul 50% e se un 45% di elettori andrà a votare potrà sembrare persino un buon dato, un arresto del processo di allontanamento dei cittadini dalla politica.
L’unità d’Italia è fatta
Dimenticheremo, così, che se una volta c’era un centro nord in cui si votava di più e un mezzogiorno d’Italia in cui si votava di meno, adesso l’unità d’Italia è fatta e in Puglia e Campania la percentuale dei votanti del 52% è addirittura più alta del 50% delle regioni rosse, regioni in cui cinque anni fa votava il 62% degli elettori e regioni simbolo come la Toscana dove i votanti sono scesi al 48% (una soglia che per i referendum equivarrebbe all’annullamento).
Perché il dibattito si è arenato? Perché, detto che c’è una colpa dei partiti e della politica, si pensa che non ci sia altro da fare e che la partecipazione al voto essendo un fatto puramente volontario dei singoli cittadini non può essere forzata. Anzi, secondo alcuni e anche secondo molti «astenuti consapevoli», non votare è un atto positivo, che dà un «segnale», tanto che si parla di un vero e proprio partito degli astenuti.
Ma la conseguenza è che un numero tra poco inferiore al 50% degli aventi diritto, elegge istituzioni e rappresentanti che prescindono totalmente da quanti vanno a votare. Anzi si affaccia l’idea perversa che meno sono quelli che votano, più si può condizionare il voto con campagne e provvedimenti mirati a specifici target di popolazione elettorale.
Elettori come consumatori di prodotti, politica come ricerca di mercato, partiti come piazzisti.
Insomma non c’è altro da fare che rassegnarsi?
Dare un peso al non voto
In precedenti articoli su questo giornale era stata affacciata l’idea di rendere il numero degli eletti sensibile al numero dei votanti e nel corso del dibattito sull’Italicum avevamo provato a lanciare una proposta-provocazione: poiché si assegna la maggioranza assoluta dei seggi a un partito che può avere anche il 30% dei voti espressi e che rappresenta, quindi, il 15% degli elettori, perlomeno si stabilisca che l’assegnazione del premio di maggioranza scatta solo se vota perlomeno il 40% degli elettori. Sarebbe comunque un modo per spingere i partiti a non trascurare la sfiducia che porta all’astensione e a dare un peso anche al non voto.
Pochi giorni fa un articolo di Michele Ainis sul Corriere della sera ha rilanciato efficacemente il tema del peso del non voto sottolineando che la democrazia entra in contraddizione con sé stessa quando nega ogni peso agli astenuti. Ricordando esperienze passate in alcuni paesi, Ainis ha affacciato l’ipotesi di rendere il numero dei parlamentari eletti proporzionale al numero degli elettori che vanno a votare: 50% di votanti, 50% di eletti.
Così formulata l’ipotesi ha connotati chiaramente provocatori, ma il senso politico di essa mi sembra fortemente apprezzabile e meritevole di una discussione che spero coinvolga i tanti esperti che scrivono sul nostro giornale e gli esponenti della sinistra parlamentare.
L’obiettivo centrale
Insomma l’astensionismo si combatte sì con la buona politica, ma la politica sarebbe tanto più buona se sapesse che, spingendo gli elettori al non voto, ne scaturirebbero conseguenze negative e se assumesse l’obiettivo della crescita della partecipazione come obiettivo centrale per la tenuta della democrazia e la difesa da ogni deriva populista.
Quando metà degli elettori va a votare e di questi una parte consistente e crescente vota «contro», la democrazia è in pericolo e di questo occorre prenderne atto e presto.
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