Pittura: non immagini ma tele e tubetti
La Rivoluzione industriale ha innescato profonde trasformazioni nelle pratiche dello sguardo, stravolgendo anche in campo artistico il senso di tradizioni secolari. Tuttora le innovazioni tecnologiche continuano a modificare il modo in cui le immagini vengono concepite e fruite, e tra le conseguenze di questo fenomeno rientra la progressiva indifferenza dell’occhio umano agli aspetti materici della pittura: le opere dipinte vengono troppo facilmente considerate per lo più come dispositivi testuali, quasi fossero simulacri digitali da proiettare su uno schermo. È curioso come Van Gogh, ad esempio, autore attentissimo agli effetti di superficie delle proprie tele, in cui si alternano scabrosità, levigatezza, rilievi e abrasioni, sia oggi ripetutamente celebrato da mostre immersive nelle quali la realtà virtuale azzera proprio quegli effetti di texture. Anche il mondo accademico, nell’ebrezza dei Visual Studies e della loro ossessione per le immagini disincarnate, ha incoraggiato tale approccio, e solo in tempi recenti si è avuta una parziale reazione, sotto forma di indagini diagnostiche e studi sulla cultura materiale (Materiality).
A quest’ultima tendenza si può accostare il saggio Le tecniche pittoriche dall’Impressionismo all’Astrattismo di Simona Rinaldi (Carocci, pp. 240, € 19,00). Il libro infatti pensa la pittura nella sua accezione di procedimento finalizzato alla produzione di immagini mediante sostanze coloranti applicate con pennelli, spatole o altri strumenti su superfici più o meno assorbenti, ottenendo pellicole di diverso spessore con superfici variamente trasparenti, opache o lucide. In questa ottica di concretezza Rinaldi esamina le ripercussioni del progresso tecnologico sull’arte europea in un periodo che, pur nella sua brevità, si è dimostrato «particolarmente denso di eventi e rivolgimenti concettuali, sia per quanto concerne i materiali e le tecniche pittoriche, sia per la maturazione delle teorie del colore in relazione ai fenomeni percettivi, suscitata e alimentata dall’incessante fabbricazione industriale dei pigmenti sintetici nel corso del XIX secolo, con la loro confezione in tubetti di stagno pronti per l’uso».
Il volume è suddiviso in capitoli centrati su personalità emblematiche dell’avanguardia storica: Corot e la Scuola di Barbizon, Manet, gli impressionisti, Cézanne, neoimpressionisti e divisionisti, fauves, cubisti, futuristi, Malevič e i raggisti, Kandinskij e Klee. L’autrice procede repertando i materiali impiegati dagli artisti nella realizzazione di dipinti su supporti mobili, nel formato prevalente del quadro da cavalletto – ornamento e feticcio del salotto borghese. Pur autonomi, i capitoli si ancorano tutti a una sezione preliminare nella quale appaiono diligentemente elencati i «principali pigmenti pittorici brevettati e prodotti come colori in tubetto (…) tra Ottocento e i primi decenni del Novecento», dal Bianco d’antimonio al Violetto oltremare. Per ogni esempio proposto, Rinaldi fornisce indicazioni sulla natura dei pigmenti, dei leganti, dei supporti e di eventuali finiture. A ciò aggiunge osservazioni sulle vicende conservative delle opere, in riferimento a quei non rari casi in cui la qualità scadente dei materiali, o una loro infelice combinazione, oppure qualche restauro avventato, hanno causato nel tempo alterazioni delle condizioni originarie.
Per non smarrire il contesto durante l’enumerazione degli elementi, l’autrice rimanda spesso alla storia delle esposizioni; tuttavia, risulta più interessante osservare a margine il ruolo svolto dai fabbricanti e venditori di articoli per Belle Arti – soprattutto parigini, come Ange Ottoz, Victor Mulard o il celebre père Tanguy, immortalato da Van Gogh –, ai quali gli artisti potevano rivolgersi per acquistare colori in polvere e in tubetto, tele di diversi formati già predisposte con imprimiture o fondi pigmentati.
Il saggio ha il pregio di mettere in evidenza il collegamento tra le ragioni stilistiche e i mezzi fisici della loro espressione, riconsegnando ai pittori una competenza fondamentale del loro mestiere. L’atelier è sempre la «misteriosa cucina di un alchimista», all’interno della quale la rilettura degli scritti di Plinio, Cennini e Vasari si alterna a quella dei cataloghi Lefranc o Winsor & Newton; gli artisti intrugliano olio di lino, smalti da carrozziere, essenza di trementina e sabbia, scoprono i vantaggi dei nuovi prodotti industriali mentre ne apprendono al contempo le controindicazioni, in un’affannosa ricerca per ottimizzare i tempi produttivi e avere la massima resa estetica con il minimo dispendio di risorse. Nel taccuino relativo al suo soggiorno a Monaco di Baviera (Giselist), Kandinskij «cita l’impiego di lacche in legante oleoresinoso, di “tele romane”, fondi preparatori a colla e creta bianca, l’incamottatura in tela delle tavole, le tele Gobelins, il gesso di Bologna e descrive varie ricette di leganti a colla e di vernici con mastice e ambra».
Attraverso la ricostruzione delle fasi esecutive condotta incrociando le analisi scientifiche con le testimonianze degli artisti stessi, si ha conferma che anche dietro l’opera all’apparenza più estemporanea c’è sempre un ponderato lavoro di preparazione, seppure empirico. L’en plein air viene rivisto e corretto in studio. «L’idea del pittore che velocemente e spontaneamente lavora di getto sulla scorta dell’ispirazione (geniale) del momento è un’immagine del tutto irreale», ovvero una strategia narrativa coltivata con metodo da artisti e galleristi per posizionarsi sul mercato con profitto in termini di denaro e reputazione. La pittura esige metodo. Gauguin, malgrado il caldo tropicale, la morfina e la sifilide, rimproverava Ambroise Vollard di lesinare sui materiali che da Parigi gli inviava periodicamente in Polinesia: «non ho ricevuto le tele che mi avete promesso. Il tipo che mi inviaste in precedenza è molto difficile da lavorare e assorbe una gran quantità di pittura. Ciò di cui ho bisogno è una tela non incollata e una quantità separata di colla per l’incollaggio. O un’altra tela che può essere semplicemente incollata ma non preparata con olio; con la colla che mandate io aggiungerei un secondo strato miscelato con bianco».
E scriveva Braque che il «contrasto della materia si comporta nello stesso modo del contrasto dei colori. Io approfitto di tutte le differenze che offre la materia e allora il colore acquista un senso molto più profondo».
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