Forse solo in questo universo postmoderno la storia della band più dissacrante del punk poteva diventare uno serie prodotta dalla Disney. Quello di Pistol è uno squisito paradosso pop-culturale che sicuramente avrebbe apprezzato Malcom McLaren, provocatore/impresario dei Sex Pistols. E la serie diretta da Danny Boyle (in onda su Disney+) ha puntualmente provocato una prevedibile reazione da parte di John Lydon (aka Johnny Rotten). Il cantante e forza trainante del gruppo che prima è ricorso in tribunale per tentare (senza successo) di bloccare l’uso delle musiche originali, ha poi sconfessato il progetto caratterizzandolo come «fantasia borghese» confezionata dalla Disney che «ha rubato il passato per creare una favola con una scarsa attinenza alla realtà».

QUELLA realtà è comunque storia del rock: 125 concerti – quasi tutti nel 1976 e 77 (non contiamo quelli delle reunion degli anni 90 e dopo) – e un solo Lp (Never Mind the Bollocks). E un rocambolesco tour americano nel gennaio ’78, finito con la morte del bassista Sid Vicious e della sua compagna Nancy Spungen. Tanto è bastato ai Sex Pistols per diventare immortali. La banda nichilista per antonomasia ha lasciato un segno indelebile sulla musica, l’estetica e l’etos del punk – prima di autodistruggersi in una fiammata che ha sprigionato forse l’ultima potenza sovversiva del rock ‘n roll.
Quella dei quattro ragazzi dei quartieri popolari londinesi che diventano mito quasi per caso è una storia con naturale affinità per Danny Boyle, già narratore in film come Trainspotting di cultura ed estetica giovanile del proletariato scozzese. «Senza i Pistols non sarei qui» ha dichiarato il regista alla stampa inglese. «Il punk mi ha cambiato la vita. Come l’ha cambiata ad una generazione di giovani working-class». Ne lo ha preoccupato la reazione di Lydon che Boyle ha paragonato per dissacrante forza artistica ad Oscar Wilde. «John è un genio – ha dichiarato – Io lo amo così come è e non mi aspetto che gli piaccia la serie. Anzi, voglio che la attacchi. Ne ha diritto. Non pretendo che cambi carattere per me».

Quella dei quattro ragazzi dei quartieri popolari londinesi che diventano mito quasi per caso è una storia con naturale affinità per il regista

LE SEI PUNTATE di Pistol, scritte da Craig Pearce (co-sceneggiatore anche di Elvis di Baz Luhrmann, passato a Cannes), sono basate sull’autobiografia del chitarrista Steve Jones (Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol) e si aprono con una bravata proprio di Jones (Toby Wallace), balordo teenager dei council flats, che ruba amplificatori e microfono a un concerto di David Bowie («Guarda c’è ancorA sopra il suo rossetto!» dirà poi eccitato a Paul Cook – amico del liceo che sarà batterista della band.) I due, col primo bassista Glen Matlock, bazzicano Sex, il negozio di abbigliamento a Chelsea, dove Vivienne Westwood e Malcolm McLaren stanno inventando un’estetica punk che remixa abbigliamento fetish, piercing con spille, tinture, spikes e moicani. Autoproclamatosi impresario «situazionista», McLaren recluterà anche Rotten ed in seguito Sid Vicious per «inventare» i Sex Pistols (questa la sua versione) come provocazione culturale e operazione di immagine. I Pistols diventeranno improbabili idoli nel diffuso disagio che presagisce il riflusso thatcheriano, catalizzatori di una furia purificante in opposizione ad un rock ormai tronfio e barocco ed al compiacimento di un’Inghilterra fondamentalmente reazionaria. Doyle racconta con filologia le gesta della loro meteorica parabola: la settimana passata da Jones sotto anfetamina per imparare gli accordi sufficienti a suonare almeno una prima canzone; la prima recensione su «NME»; il turpiloquio in diretta durante l’intervista alla Thames TV che scandalizzò il Paese all’ora del tè; il concerto non autorizzato nel barcone sul Tamigi sotto al parlamento per lanciare «God Save The Queen» durante il giubileo (con arresto di Westwood e McLaren); la scrittura da parte di Richard Branson per la sua Virgin Records dopo il «licenziamento» da parte della Emi, il tour americano del ’78 nelle bettole degli stati del Sud terminate in rissa, la tragica vicenda di Sid e Nancy.
Al di la degli aneddoti, la storia dei Pistols è destinata a rimanere un enigma appeso fra autenticità e l’artificio, sempre orgogliosamente rivendicato da McLaren che non a caso titolò il film autoprodotto con Julian Temple La grande truffa del rock (The great Rock ‘n Roll Swindle).

LA FAMA della band fu insomma costruita in parte su offuscamento e millantazione. Né sarà questa narrazione a dipanare l’ambiguità così ben architettata da McLaren & co. Al massimo Pistol restituisce la storia di quattro ragazzi al centro di qualcosa di più grande di loro a cui Doyle, coevo e coetaneo di Rotten, dedica uno sguardo di genuino affetto. Il resto lo fanno i giovani interpreti: Toby Wallace (nel ruolo di Steve Jones) Anson Boon (Johnny Rotten), Louis Partridge (Sid Vicious), Jacob Slater (Paul Cook), Fabien Frankel (Glen Matlock) e Thomas Brodie-Sangster (Malcom McLaren) ed i personaggi femminili a cui la serie restituisce una centralità di solito dimeticata – oltre a Nancy (Emma Appleton), Viveinne Westwood (Talulah Riley) e Chrissie Hynde (Sydney Chandler), la rocker ventenne arrivata a Londra dall’Ohio che all’epoca si apprestava a fondare i Pretenders.
Assieme raccontano la storia di adolescenti che senza particolari doti musicali o un preciso progetto innescarono l’ultima grande ribellione del rock ed il cui lascito, oltre che in quella dozzina di canzoni, sta nelle mille band che nei garage di mezzo mondo ne hanno assorbito la foga nichilista e liberatoria creando innovazione insopprimibile e una musica giovanile che ha ridato vita al rock.