Il 2020 vedrà la promozione di attività che ricordino i trecento anni dalla nascita di Giovan Battista Piranesi. A condurre le danze sarà probabilmente l’Istituto Nazionale di Grafica, che con Ginevra Mariani da diversi anni ha avviato una straordinaria campagna di studio e restauro dei rami conservati presso Palazzo Poli. In attesa, l’ultima fatica di Pierluigi Panza può sembrare una semplice anticipazione sui tempi: Museo Piranesi (Skira, pp. 580, euro 45,00) è un testo di grande interesse e si colloca alla fine di un lungo percorso di ricerca. Gli addetti ai lavori sanno che Piranesi è uno di quegli artisti difficili da trattare senza essere superficiali. Questo perché il grande incisore delle Vedute di Roma o delle Carceri fu anche architetto, inventore, disegnatore, collezionista, mercante, topografo, archeologo, scultore, restauratore, e tanto altro. Proprio per questo, la bibliografia che lo riguarda è sterminata e di conseguenza assai difficile una sua trattazione.
Chiunque si sia confrontato con il Piranesi incisore conosce l’importanza dello studio di Arthur Hind del 1922 o del testo di Henry Focillon del 1918, magari nella versione italiana del ’67 con i contributi della Monferini e di Calvesi, o il Catalogo Generale delle Stampe di proprietà della Calcografia Nazionale pubblicato da Carlo Alberto Petrucci nel ’53, o ancora l’importanza degli studi di Tafuri del 1980. Ma è soprattutto dalla fine degli anni settanta che si è cominciato a ragionare sulla bottega e sulla diffusione dello «stile Piranesi», con risultati determinanti ancora oggi. Penso ai contributi in occasione del Convegno Internazionale a cura di Alessandro Bettagno presso la Fondazione Cini del 1978 o al breve saggio di Roberto Pane sul Sequestro dei rami di Piranesi pubblicato nel ’79. Per lo studio della bottega sono fondamentali gli studi pubblicati su «Xenia» da Gasparri e da Neverov, rispettivamente nel 1981 e nel 1983, e quelli che Caira Lumetti ha dedicato alla figura di Francesco Piranesi nel 1990. In anni più recenti abbiamo assistito alla moltiplicazione di mostre e convegni, con alcuni punti fermi come i cataloghi ragionati della produzione grafica di Piranesi curati da John Wilton-Ely nel 1994 e da Luigi Ficacci nel 2000. Poi, gli sforzi di Leander Touati e della Bosso su Piranesi restauratore, cui naturalmente si aggiungono i risultati del già citato «progetto Piranesi» dell’Istituto Centrale per la Grafica.
Fatta questa premessa, è più facile capire dove si collochi l’intelligenza di Panza che, mettendo da parte il Piranesi visionario autore delle incisioni, ne approfondisce il ruolo di protagonista nel mercato internazionale di arte antica nella Roma del Settecento. Una città che vedeva pian piano la fuga dallo Stato Pontificio di intere collezioni come quelle Farnese e Medici, e tante altre (altro che Napoleone!), e allo stesso tempo assisteva a una circolazione incredibile di reperti che lecitamente o meno venivano fuori dagli scavi di Campo Vaccino, Villa Adriana, e dell’Appia Antica.
Con Museo Piranesi, Panza ha voluto schedare le opere restaurate, ricreate o semplicemente transitate presso lo studio di Palazzo Tomati, vicino Piazza di Spagna. Un merito è soprattutto di non aver mai perso la bussola nella lunga ricerca. Questa muove i passi dagli inventari che i recenti studi hanno fatto riemergere (tutti debitamente ricordati) e tiene sempre un occhio sulla produzione editoriale dell’artista come Le Antichità Romane, Vasi, candelabri e cippi, Diverse maniere d’Adornare i Cammini. Ma di grande utilità è sapere quali, quando, per quali richiedenti e a quale prezzo sono state vendute le opere antiche (o vendute come tali!) ritrovate da Panza nelle collezioni pubbliche e spesso private di Napoli, Firenze, Parma, e ancora in Svezia, Francia, Germania, Olanda, Polonia, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti. Una collezione straordinaria, quella di messer Candelabro, che costituiva meta di visita dei più grandi regnanti e gran turisti d’Europa. Il libro di Panza ricostruisce inoltre, per la prima volta in modo unitario, il ruolo avuto dal figlio Francesco, altro personaggio poliedrico e controverso, che ha collaborato all’ultima produzione paterna ed è stato alla guida della bottega dopo la morte di Giovan Battista nel 1778.
Proprio la vendita di Francesco Piranesi a Gustavo III costituisce la maggiore dispersione del «Museo» nel 1785 con 96 lotti, la cui provenienza originaria già pochi anni dopo era ignota o volutamente ignorata. Ma aldilà di alcuni capolavori come il celebre Candelabro Piranesi del Louvre, o il Candelabro Newdigate dell’Ashmolean Museum di Oxford, Panza ricostruisce il passaggio nella bottega piranesiana di alcune opere difficili da vedere come il camino del Kabinett des Fürsten conservato nel castello di Wörlitz in Germania o quello di Stowe del Banco di Santander in Spagna. A questi si aggiungono i vasi di proprietà della baronessa Brabourne, acquistati da Lord Parlmerston durante il suo viaggio in Italia del 1764 e subito dopo spediti in Inghilterra per decorare la bella tenuta nobiliare nei pressi di Romsey.
Nella piena consapevolezza che altre opere provenienti o rifatte da Piranesi salteranno fuori, il testo di Panza si propone come punto di partenza per future ricerche. Ma non è un libro per soli studiosi, perché ricco nell’apparato grafico e soprattutto completo nella ricostruzione del contesto storico-culturale in cui si inserisce la produzione della bottega piranesiana. In tempi in cui le dispersioni continuano a essere numerose (vedi la vendita Sotheby’s del 20 febbraio scorso dell’intera biblioteca romana di Sergio Rossetti finita negli Emirati), Museo Piranesi svolge un ruolo abbastanza cruciale. Non ha esagerato Marcello Barbanera quando, alla presentazione romana, lo ha definito «il libro della vita», perché, oltre a essere un testo che per vastità e complessità può essere scritto solo dopo tanti anni di scavi in archivi, biblioteche, collezioni, è un lavoro che sarà utile al prossimo, cosa che appunto ciascuno studioso nella vita si augura di realizzare.