Piranesi, la città del domani come un ufo
Giovanni Battista Piranesi, un bilancio del tricentenario Le varie mostre organizzate lasciano interessanti spunti per tornare a ragionare sul rapporto dell’incisore veneziano con l’architettura: rapporto 'totale' che fu anche dannazione...
Giovanni Battista Piranesi, un bilancio del tricentenario Le varie mostre organizzate lasciano interessanti spunti per tornare a ragionare sul rapporto dell’incisore veneziano con l’architettura: rapporto 'totale' che fu anche dannazione...
I trecento anni dalla nascita di Giovan Battista Piranesi sono stati ricordati con una serie di mostre (Bassano del Grappa; Milano, Braidense; Perugia; Venezia, Fondazione Cini; Roma, Istituto centrale per la grafica) ricche di un corpus completo di opere, spesso provenienti da collezioni non frequentate (Biblioteca della Scuola Militare Teulié). Un mondo di immagini e forme zampillate da una fantasia miracolosa, moltiplicate in più di mille lastre e altrettanti disegni frutto di una mente che si è affrancata dalle luminosità del Tiepolo, dalle parallele dei cieli di Canaletto e da tutte le influenze. Molti concorsero alla sua formazione, ma troppo forte e indipendente era la sua personalità perché lo stacco dai raffinati modelli veneziani non si facesse immediato. Personalità e indipendenza che si estende nel tempo e nello spazio impegnandolo sempre come architetto.
Il segno si dispone in fila, si interseca, si addensa per tradursi in immagine aperta, pronta a espandersi all’infinito. E più questa immagine si distende nello spazio e si fa misteriosa, più Piranesi si impadronisce di questo spazio che trova la sua assoluta compiutezza nella sola architettura realizzata, Santa Maria del Priorato all’Aventino (1764). Bisognerebbe sfogliare il libro mastro dei lavori della chiesa (oggi alla Columbia University) per rendersi conto dell’originalità dei risultati. Dal sigillo dell’Ordine di Malta al fregio che orna la villa, alle decorazioni che corrono lungo la piazza, tutto aderisce all’andamento delle superfici. I temi classici dell’ornato sollecitano di continuo spunti compositivi, acuiscono l’inventiva che, per farsi celebrativa, non si piega mai su se stessa. La chiesa è dei suoi ultimi anni, ma non scioglie il nodo tra Piranesi e l’architettura, che è di data antica.
Nella lettera-documento del 1743, diretta a Nicola Giobbe, l’impresario edile romano, Piranesi si dichiara tradito dall’architettura. Il nodo-antitesi è tutto qui. E sarà il troppo amore per l’architettura a fargli scegliere Roma come appagamento di un’utopia. Una forma di pessimismo verso il suo tempo e la convinzione che fosse il momento di progettare e non di costruire, nella ricerca testarda di un’altra architettura, lo fanno abdicare all’incisione. E l’incisione (che sta a Piranesi come l’enciclopedia a Diderot e Voltaire) diventa immagine parlante che blocca la dimensione del tempo e intende la divulgazione come fatto morale e didascalico, che usa frontespizi, iscrizioni e memorie per tirarci, con un accorto gioco di effetti ottici, nell’antichità e ipnotizzarci in essa. Henri Focillon: «Roma non ha mai conosciuto una luce così prodigiosa».
Sono le rovine stesse di Roma a dire la sua grandezza. Piranesi rivisita la città dal Colosseo a Massenzio, al Tempio di Vesta, al Foro Traiano, per ricomporla con gli scatti rapidi della sua fantasia colma di luce veneta. Roma diventa il suo spazio fisico e mentale, il simbolo vivo di confronto. Ogni barriera cade, l’immaginazione si scioglie nello stacco di un segno, in una sciabolata di luce, in un cono d’ombra che forano senza interruzioni le dimensioni dello spazio. Porte, finestre, scale, ponti, archi ricompongono una passata grandezza. E Roma torna grande perché grande fu la sua architettura.
Ecco le Antichità Romane (1756), nel cui contesto Piranesi rivendica l’originalità latina in opposizione a quella ellenica. È anche questo un modo per ridare vita alle pietre: ribaltando i moduli di un’architettura senza confronti, riempiendo i resti di Roma di una forza magica, rialzando colonne con la fantasia. In questo restauro di un mondo di classiche architetture c’è la consapevolezza di una condizione umana in via di distruzione, una visionarietà inquietante. Più Piranesi si accosta alla realtà di Roma, più penetra nella decomposizione delle cose umane. E più questo sviluppa il suo lato filosofico più egli perviene all’invenzione, al documento-spirito del tempo.
In questi passaggi il disegno fa da specchio che ingrandisce i frammenti. Le dimensioni mutano così come la sua immaginazione, senza costrizione né durezza. Il passato è già futuro, il cimelio un oggetto dell’oggi. Alla base c’è l’analisi: conoscenza dei materiali, loro rapporti di struttura, metodi di costruzione. È l’antiquissima sapienza degli italiani, ereditata dagli Egiziani e dagli Etruschi e quindi dai Romani, per corrompersi con la decadenza ellenistica. Le Carceri sono la summa di questa saggezza-sapienza. Ogni linea foggia un materiale, ogni materiale disdice l’ambiguità dello spazio. Ed è la distorsione dei volumi, l’eccentricità delle prospettive a manifestare la vocazione di Piranesi a costruire. È una vocazione-ambizione-provocazione ben chiara nelle poche cose da lui fatte, o che avrebbe potuto fare solo se alla grandiosità di Roma fosse corrisposta una committenza pari all’imponenza della sua ambizione. Purtroppo, è su questa «grandiosità» che si è stratificato l’errore di identità che per anni ha fatto sottovalutare Piranesi. L’apprezzamento come «vedutista» ha ricacciato nel profondo il riconoscimento di Piranesi «architetto veneziano».
Ciò che gli interessava non era la semplice costruzione. Piranesi usava il passato in senso critico, visto che il presente lo costringeva al ruolo di fornitore di camini. Il passato, però, poteva essere ricostruito, era l’unico frutto desiderabile. Non riesce ad avere commissioni da architetto? Se le inventa incidendo. E ne viene fuori una città del futuro di una maestosità degna del più ambizioso degli imperatori. Campo Marzio, rilievo e ricostruzione, è il punto focale di tale grandiosità. L’oggetto architettonico, il complesso urbano, ci danno un Piranesi progettista, il restauratore di un passato che è fiducia nella rigenerazione dell’arte del costruire. La varietà dei tipi architettonici e delle geometrie sono di una magnificenza che né le architetture di Brasilia né quelle dei giochi olimpici di Mosca hanno mai raggiunto.
E non si creda questa Roma tecnicamente irrealizzabile: il solo problema è economico… Le fondamenta della Mole Adriana e del Teatro di Marcello potrebbero essere una buona scala per arrivare in cielo, il Tempio di Vesta l’abitazione degli dei. I costruttori delle Piramidi o del Colosso di Rodi sono topi di fronte alle incisioni del II e del III volume delle Antichità Romane. Le sette meraviglie del mondo sono tutte in un solo foglio delle Carceri.
«Virtuoso e pazzo», ma senza concessioni al romanticismo, Piranesi ha costruito una sua Roma, che è anche la Roma di Stendhal e di Chateaubriand, di Byron e di Keats. È «L’Escalier du vertige où s’abîme mon âme» (Baudelaire). L’ambiente totale di Piranesi (che ammiriamo a Cori) è quello della città futura, quella dei figli dei nostri figli, che a volte troviamo nelle scenografie degli ufo. È immagine ancorata a una realtà che sarà ancora nostra, è tempo scandito all’infinito. Joseph Rykwert: «Piranesi si muove nel passato sul punto di ricostruirlo come un unico futuro desiderabile».
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