Sembrerà paradossale ma Luigi Pirandello è una recente acquisizione della letteratura italiana o comunque è un ingresso tardivo nel cosiddetto Canone dei valori acquisiti. Per ulteriore paradosso, la scuola (dove ormai a memoria d’uomo si trattano Il fu Mattia Pascal e i maggiori testi teatrali) è arrivata prima dell’università e di una bibliografia che soltanto negli ultimi decenni ha raggiunto dimensioni appropriate a un classico. E ciò per diversi motivi: per l’interdetto secolare di Benedetto Croce che lo aveva bollato quale confuso filosofante e ambiguo mistagogo (insomma alla stregua di un causidico meridionale imprigionato nei suoi stessi irresolubili filosofemi); per la apatia, se non per la vera e propria antipatia, che gli avrebbe decretato nella seconda metà del Novecento il nuovo principe del gusto che fu Gianfranco Contini, il quale, ancora nella Letteratura dell’Italia unita (1968), scrive di un «atteggiamento scettico e pessimistico per la cui gracilità di pensiero si esita a citare la tradizione dei Leopardi e degli Schopenhauer»; infine per lo scarso peso e per l’estraneità al senso comune che da sempre hanno in Italia gli studi sulla scrittura drammaturgica e la letteratura teatrale, posto che Pirandello, appunto, giusto dal teatro ha avuto fama e larghezza di riconoscimenti a livello internazionale prima che nazionale.
È vero che Pirandello narratore è già un focus del Romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti (cioè il palinsesto delle lezioni romane che esce postumo nel ’70: ma lì è anche vero che ha minor rilievo sia di Svevo sia di Tozzi nell’annunciare il verbo dell’anti-romanzo) e tuttavia i riscontri di alto livello a quella altezza sono davvero pochi: il vecchio, schematico, ma utile lavoro di Carlo Salinari (Miti e coscienza del decadentismo italiano, 1960); il profilo di Arcangelo Leone de Castris (Storia di Pirandello, 1962); per arrivare finalmente ai contributi di due fuoriclasse, Pirandello o la stanza della tortura (’91) di Giovanni Macchia e Ritratto e immagini di Pirandello (’91) di Nino Borsellino. Alle pagine di costoro si interpongono quelle fraterne di non pochi scrittori siciliani, su tutti di Leonardo Sciascia, si direbbe un pirandelliano ad honorem, e di studiosi per lo più isolani che via via hanno condotto alla luce (con pubblicazioni di carteggi, edizioni critiche e lavori di pretta filologia) il cosmo introverso di un autore che oggi appare finalmente un classico della nostra letteratura, senza ulteriori aggettivi.
La famiglia e l’epoca
Ora, tra le iniziative editoriali che ne ricordano i centocinquantanni dalla nascita, spicca per l’originalità del taglio, per la accuratezza delle proposte documentarie e anche per l’eleganza tipografica il grande album I Pirandello La famiglia e l’epoca per immagini (La nave di Teseo, pp. 230, € 40,00) a cura di Enzo Zappulla, storico del teatro, e di Sarah Zappulla Muscarà, che a Pirandello e alla letteratura siciliana ha dedicato gran parte della sua ricca e articolata produzione critica. Unitamente a un saggio introduttivo e agli apparati bibliografici, il volume propone qualcosa come seicento foto e relative didascalie che assecondano puntualmente la vicenda pirandelliana. Vi sono presenti a tutta pagina non solo i ritratti che ne hanno immortalata la figura pensosa e per certi versi inquietante (il Pirandello insomma da «quarta di copertina», nel violento luce-ombra di un Bragaglia o di un Luxardo) ma anche e soprattutto lo scrittore sorpreso, di volta in volta, fra il chiuso di un lavoro sempre ossessivo, di una vita domestica che fu tra le più mutamente dolorose, e i flash di una presenza pubblica che nel suo frangente estremo, dalle tournées transoceaniche al Premio Nobel, fu viceversa prodiga di grandi riconoscimenti. All’impaginazione dell’album, che segue ordinatamente il filo cronologico, in realtà è sottesa una chiara ipotesi critica che a sua volta corrisponde all’ennesimo e forse più riposto paradosso pirandelliano, vale a dire il cortocircuito fra una radice isolana mai divelta (nonostante gli studi a Bonn, nonostante la residenza a Roma, nonostante una audience infine planetaria) e una vocazione invece cosmopolita, universalistica, tesa a smaltire in altro o a sublimare la dialettalità nativa per indagare le dinamiche e le contraddizioni irresolubili dell’uomo come tale. Dunque, a cadenza, il qui e l’altrove vi si richiamano, interagiscono ma non possono mai conciliarsi.
Tetro patriarcato meridionale
Basterebbe citare le foto familiari, a decine, dove le immagini di un tetro patriarcato meridionale (i genitori, i fratelli, la moglie poi internata in manicomio, i figli, la nidiata di nipoti) si alternano alle istantanee di una ribollente diaspora endogamica (Stefano che diviene segretamente scrittore, Fausto un eccellente pittore, Lietta che se ne va in Sudamerica); oppure le foto che testimoniano i rapporti col fascismo, dove alle immagini di Pirandello in camicia nera o con la feluca da Accademico d’Italia seguono quelle diremmo «in borghese», sulla tolda di una nave o su un divano d’ambasciata, rubate a un autore migrante, illuso e deluso da Mussolini, che ormai sa di poter essere compreso a Parigi, Berlino, New York ma non in Italia. (Nel suo decorso di nazionalista e di uomo d’ordine, Pirandello deve aver finito con il sovrapporre idealmente la camicia nera di cui si era a lungo compiaciuto alla camicia rossa dei garibaldini di cui aveva detto ne I vecchi e i giovani, 1913, archetipo del Gattopardo, grande romanzo del tradimento politico, grande palinsesto della italianità come trasformismo e opportunismo delle classi dirigenti, mai entrato purtroppo fra le letture obbligatorie degli italiani).
Quanto a questo, l’introduzione all’album menziona una lettera alla sua egeria Marta Abba, del febbraio 1932, circa l’irritazione del duce relativa al suo «brutto carattere»: «Brutto carattere perché, chiamato a onorare Giovanni Verga, ha il coraggio di denunziare pubblicamente la persona e la ragione che per tanto tempo impedirono che Giovanni Verga fosse onorato, come meritava, dagli Italiani. Pirandello ha un brutto carattere perché trattato come è stato dal suo paese, ha avuto resi, come egli dice, tutti gli onori (io vorrei sapere quali, forse l’Accademia, insieme con Marinetti, Formichi, Angiolo Silvio Novaro e compagnia bella!); ma poi escluso da ogni rappresentanza attiva, escluso dal teatro, escluso dalla Società degli Autori, bersaglio d’una lotta accanita d’un malfattore che ha distrutto il teatro italiano, ha dovuto riparare all’estero per guadagnarsi da vivere». Il malfattore di cui sta parlando è il più geniale e costoso mantenuto del fascismo, ovviamente Gabriele d’Annunzio, le cui esequie al Vittoriale, nel marzo del ’38, anno apicale del regime, sono peraltro un’occorrenza estrema della pornografia nera. Mancato un anno e mezzo avanti, lo scrittore siciliano non ha avuto funerale e ha voluto essere cremato come ci ricorda indirettamente la bellissima immagine che Enzo e Sarah Zappulla Muscarà hanno voluto per la copertina dell’album, il ritratto terminale che gli fece il figlio Fausto, così adusto e carico di materia da rammentare un Lucian Freud. Lì l’anziano scrittore sta seduto, borsalino e papillon, la sua pelle è scura, quasi vulcanizzata, i suoi occhi sono piccoli, pungenti, nerissimi: sta guardando suo figlio, guarda verso di noi ma sembra rivolto all’altrove, a ogni possibile altrove.