Alias

Pippo Delbono dal divano giallo

Pippo Delbono dal divano gialloDa «Il risveglio» di Pippo Delbono, foto di Luca Del Pia

Anticipazione Dal libro «Delbono», © Gianni Manzella 2024, Pubblicato nella collana Linea di Emilia Romagna Teatro e Luca Sossella Editore

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 12 ottobre 2024

(…)

Epilogo. Les Contamines. Il divano giallo, agosto 2024

La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro, scrive Saramago.
Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si era visto di notte… Bisogna ricominciare il viaggio. L’importante è che qualcuno resti a casa a dare acqua ai fiori.
Questo libro ha fatto sua la raccomandazione di Saramago. Si è rimesso in viaggio per vedere di nuovo quello che aveva già visto in un’altra stagione e che ora qualche volta gli pare diverso. Forse diverso è il viaggiatore, che si porta dietro altri segni del tempo.

Anche questo libro vorrebbe non finire mai di scriversi. Prende tempo, divaga. E tuttavia a un certo punto deve rassegnarsi a fissare sulla carta un suo provvisorio approdo. Dove trovare un finale. Mentre il viaggiatore prosegue il suo viaggio possibilmente ricco di avventure, cercando un’altra Itaca. Bisogna rubare ai maestri. Prendere e poi fare proprio quello che si è rubato. E quando è il tempo restituire il dono, perché il furto è sempre un dono ricevuto. Così anch’io ho pensato che il finale del libro sarà il racconto del momento in cui davanti a me Pippo Delbono fa nascere di nuovo lo spettacolo. Dove l’incertezza del mio ruolo si è presto sciolta. È quello che sempre sono stato. Uno che guarda.

Quanto ci ritroviamo a Les Contamines, Alta Savoia, Delbono è deciso a manomettere un po’ quanto avevo visto due mesi prima in Romania. Lì per lì anche il titolo vorrebbe cambiare. Poi come altre volte si accontenta di suggerire: questo spettacolo si intitola Il risveglio ma potrebbe chiamarsi anche La vecchiaia. Un nuovo tema si è infatti fatto largo dentro le maglie della fabula. Pippo vuole raccontare i suoi sei anni di follia. Gli anni in cui aveva chiuso le porte al mondo. E quando si era risvegliato si era accorto che tutti intorno a lui erano invecchiati. E anche lui era invecchiato.
Lo spettacolo non è un alberello secco, ma forse vale comunque la pena darci dell’acqua. Per vedere che fiori nascono questa volta.

Siamo seduti l’uno accanto all’altro sul divano giallo di casa sua, come quei due del film di Almodóvar (Parla con lei, n.d.r.). Mi viene in mente che nel film quello che piangeva davanti allo spettacolo di Pina Bausch è colui che si salva. Pippo sta meglio che a Sibiu, mi sembra. Lo trovo sempre che mangia della frutta o è al telefono con una sua amica che fa musicoterapia. Quando ha voglia di raccontarsi, di raccontare la sua «vita immaginaria», è divertente come sa fare. Racconta la «fauna d’arte» parigina, le avventure con Sophie Calle, in un viaggio a New York o a una mostra. Si lamenta dell’angoscia che a volte l’assale quando si sveglia nella notte ed è faticoso arrivare al mattino, ma poi la giornata riprende il suo corso normale.

Mi racconta della casa che tempo fa aveva comprato in un posto sui Pirenei, vicino a Lourdes, un posto più bello di qui, mi dice, in mezzo a un bosco, davanti a un lago. Però erano anni che non c’era più andato, per via della distanza. C’è tornato prima di venire qui, perché ha pensato di venderla. E aveva scoperto che era stata occupata dall’uomo che aveva incaricato della manutenzione. Gli aveva spiegato che si era separato dalla moglie e non sapeva dove andare.

Jean-Luc Nancy racconta in un altro libriccino dell’intruso che si introduce di forza, con la sorpresa o con l’astuzia, senza essere stato invitato e senza chiedere permesso. L’intrusione di un corpo estraneo al pensiero. Nancy parla del cuore di un altro che ha ricevuto, dieci anni prima, perché il suo era fuori uso. E lui si interroga su una sopravvivenza che è impossibile considerare come una pura necessità. Su cosa significa sopravvivere. In che senso la durata della vita è un bene. E intanto però arriva il cancro, dovuto all’abbassamento delle difese immunitarie. Il cancro è come la faccia smarginata, adunca e divorante dell’intruso. E anche in questo caso, seppure in modo diverso, la terapia esige un’intrusione violenta.

Quello che mi colpisce è l’esattezza della descrizione che Nancy fa della malattia, calata dentro il linguaggio filosofico. E si capisce come si possa adattare facilmente a tante altre malattie. Penso allo stent coronarico inserito dopo l’infarto, per tenere aperta l’arteria che porta il sangue al cuore. O ai segni che sull’addome ancora segnalano dove erano stati aperti i vuoti per l’ingresso delle lame che nella chirurgia robotica asportano il tumore. Penso alla malattia della mente, che fa paura perché non si sa da dove è venuta. Il virus che invece si sa bene da dove è arrivato. Quanti sono gli intrusi che forse non sappiamo di ospitare.

Quando nel mese azzurro di settembre del 1997 vidi per la prima volta Barboni in scena a Palermo, seduto a un tavolino nella piazza davanti al Politeama dov’era stato allestito il palco, in un’atmosfera da café chantant all’aperto che in fondo non stonava con quello che vedevo, e mi sorprendeva, in quel momento non avrei immaginato che un giorno lontano nel tempo ci saremmo trovati qui, io e lui, in un’altra fresca serata di tarda estate. Seduti a conversare davanti alla sagoma scura del Mont Joly dalla forma triangolare, come potrebbe disegnarla una bambina di sei anni che conosco.

Invecchiati, certo. Ma non diventati insensibili al dolore degli altri. Senza questi anni alle spalle come avremmo potuto attivare i ricordi di cui stiamo parlando. Seduti sul divano giallo. Portogallo e nuvole. Il dolore e la gioia che abbiamo attraversato, con le loro punte di follia. Gli spettacoli che ci hanno cambiato la vita. Gli antichi amori, i teneri ardori, grandi segreti, complici cuori – que reste-t-il?
Qui, davanti all’ultimo sole che tramonta dietro il Mont Joly. Con il vago desiderio di un bicchierino di rum. Quello pastoso e profumato della Martinica, spillato da vecchi tini di legno incrostarti di residui, forse più buono degli altri proprio per le imperfezioni della sua arcaica lavorazione. Qui lo chiamano rhum agricole.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento