La violenza del nostro mondo viene da molto lontano, da un tempo immemore. La prevaricazione di un individuo sull’altro, la sopraffazione, l’atroce atto di togliere la vita, l’unica possibile, al prossimo. «Sopra le nuvole c’è il sereno. Ma il nostro amore non appartiene al cielo. Noi siamo qui tra le cose di tutti i giorni, di giorni e giorni grigi», canta Sergio Endrigo in Aria di neve. A Roma, però, non ci sono fiocchi di neve. Cade acqua e scorre sangue. È l’inizio di Piove di Paolo Strippoli, al suo secondo lungometraggio dopo A Classic Horror Story, diretto insieme a Roberto De Feo.

ANCORA un’opera di genere, dunque, che indaga i demoni, le paure, i desideri inespressi, le frustrazioni, i piccoli fallimenti quotidiani, le incomprensioni che si amplificano fino a trasformarsi in un vuoto silenzio e indifferenza per la vita altrui, l’incapacità di elaborare un lutto e di condividerlo. E poi il baratro che la finitezza dell’esistenza pone di fronte a ogni singola persona, provocandole un senso di indefinita vertigine. Insomma, la complessità dell’essere sotto il cielo, giorno dopo giorno.
Strippoli, che con Jacopo Del Giudice e Gustavo Hernández firma anche la sceneggiatura del film, è abile nel non dare particolari spiegazioni alla storia. La pioggia incessante, una melma di origini sconosciute, le esalazioni che risalgono attraverso tubature e tombini, le reazioni di chi respira quei vapori, la morte che si affaccia ovunque, che attraversa strade e che entra nelle case e negli edifici abbandonati. Una trama semplice forse perché quell’evento misterioso che altera le menti, in realtà trova un’umanità già pronta a farsi del male, sia nel grigiore sia quando il sole splende.

Diviso in tre parti, «Evaporazione», «Condensazione» e «Precipitazione», Piove segue soprattutto le sorti di una famiglia distrutta dal dolore di una perdita, incapace di andare avanti, paralizzata da un passato che non c’è più, se non in forma di incubo. E in questa insistenza nell’osservare un nucleo che si è disintegrato, risiede forse il paradosso di un horror che perde di vista la città e la sua collettività.

UNA ROMA deserta, priva di traffico, senza pedoni, come se tutti fossero spariti o si fossero rintanati nelle proprie dimore. Così, il racconto esibisce madri, padri, sorelle e fratelli, attribuendo a quei soli legami (an)affettivi l’inizio, la condivisione, la cesura, la fine e, forse, l’apparire di un nuovo mondo.