La materia, la dimensione sterminata, multiforme della materia, il precipitato mitico inscritto in ogni superficie modellata, plasmata, è il perno intorno a cui ruota Pino di Walter Fasano, o anzi intorno a cui bascula, da un piano all’altro, vista la presenza delle dissolvenze incrociate che fanno emergere spettri al posto di altri, a partire da altri, eco di voci scomparse, riverbero di luoghi, di vuoti, come provenienti da intercapedini fatte d’improvvisa fotosintesi. Passato al Festival di Torino dell’anno scorso, poi candidato ai David di Donatello per i documentari, Pino è ora su Mubi: non una biografia ma vera e propria evocazione di fantasmi, del fantasma di Pino Pascali, lo scultore pugliese che così torna a parlare e a muoversi (non a essere semplicemente raccontato), torna a creare nella sua complessione scapigliata, nella sua carne lucente, a essere, torna a essere nel diorama cinematografico, dentro lo specchio della materia-luce in cui il regista non può che riflettersi.

IN EFFETTI Fasano sembra fare con le immagini di Pino quello che Pascali faceva con i materiali di cui disponeva o che selezionava: reinventa le forme, le cose già date, i materiali di repertorio, i resti di una memoria che ancora mormora, mischiandoli, montandoli con immagini nuove – e con voci disparate, in tre lingue, giunte da chissà dove o quando – e arrivando a forme topiche, anzi mitiche in cui ritrovare sé e le ragioni della propria immaginazione. Quello di Fasano pare un processo di appropriazione, o forse proprio di possessione spettrale di Pascali e della sua vicenda, in modo che risuonino ancora nelle scintille del segno, nelle «faville del maglio» dello scultore, e allo stesso tempo parlino del regista attraverso Pino; parlino di una mitopoiesi inscritta in qualche punto del passato e poi nell’apprendistato alle cose, alla loro luce, al modo che hanno di corrispondersi. «Forse è questo il luogo in cui si incontrano lune e comete, mare e favole»: l’immagine certo, una sorta di semiosfera, la fibra tutta cinematografica in cui l’acqua freme e tace, ma anche, al di là del motivo, il collegamento, il raccordo tra un’immagine e l’altra, l’intervallo di tempo in cui l’immagine (e Pascali stesso) sperimenta il proprio fulgore e, in un momento, il proprio crepuscolo. Allora Pino è un film di trapassi, di motivi fagocitati e poi restituiti all’immagine dai chiaroscuri, dalle dissolvenze, gli stacchi, e non potrebbe che essere così vista l’attitudine di Fasano al montaggio.

IL FILM È SPAZIO espositivo, spazio di cose di passaggio, in cui, nell’andirivieni tra presente e passato e quel particolare futuro che è il cinema, si materializza e si perde il tempo, si imprime sulla pellicola per poi dissolversi il tempo breve che Pascali si concesse per ricordare e immaginare. Vi sono esposte le opere, armi, animali, mari, attraverso cui l’artista cerca di ritrovare il tempo perduto, sprazzi d’infanzia bruciante, amori che imbevono sempre il segno e il pensiero. Alla fine, proprio come da bambino riusava oggetti banali per costruirsi giocattoli, la pop art diviene per lui un modo per appropriarsi degli oggetti di risulta e farne sagome, plaghe, corpi intimi e misteriosi, sculture nella cui materia, nelle forme così levigate di creature preistoriche o in quelle ispide delle setole, covasse un segreto, una nostalgia marina, una qualche estasi per le fattezze e proprio la plastica del mondo. C’è una purezza come fanciullesca nello sguardo di Pascali sulle cose, siano anche cannoni, missili, granate, tutti involti dentro un verde militare che però è quello dei soldatini in miniatura, di plastica, piuttosto che quello di un arsenale: tutto il concettuale che se ne può dedurre viene di là, da quella purezza, dal puro piacere per le cose, piacere tattile per le superfici porose, per le forme ataviche. Ed è la stessa trepidante trasparenza dello sguardo di Fasano su Pascali e le sue opere che mentre geometrizzano il mare in vasche quadrate ed evocano onde e balene, pensano, ripensano tanto Ulisse quanto Pinocchio, tanto le crude plaghe sterminate oceaniche quanto soprattutto – e qui pare essere il segreto ultimo di Pascali – il mare natio, domestico e primordiale, perduto poi ritrovato di Polignano, tant’è che alla fine non può che restare, coreutica, percussiva, fanciullesca, l’Itaca di Lucio Dalla.