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Pindaro: committenza, aura, e fermenti d’epoca

Pindaro: committenza, aura, e fermenti d’epocaJean-Baptiste Regnault, L’educazione di Achille, 1782, Parigi, Louvre

Classici antichi Con l’edizione critica e commentata delle Nemee, la Valla completa la serie dedicata agli «epinici» del poeta tebano: che Wilamowitz e altri ritenevano (ingiustamente) avulso dalla Storia

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 8 novembre 2020

Con Le Nemee di Pindaro a cura di Maria Cannatà Fera (Mondadori, pp. LXXIX-602, euro 50,00), si completa la pubblicazione integrale, nella collana della Fondazione Lorenzo Valla, dei quattro volumi degli epinici del poeta tebano, presentati in un’edizione critica che non esiteremmo a definire monumentale, e che per ricchezza di apporti, sistematicità del commento e raffinata procedura di costituzione del testo non è inferiore agli ormai storici sei volumi dell’Odissea tradotta da Aurelio Privitera. Le Nemee concludono un percorso editoriale ormai più che decennale, iniziatosi nel 2009 con Le Istmiche, a cura dello stesso Privitera, proseguito nel 2012 con Le Olimpiche, sottoposte al robusto vaglio filologico di Bruno Gentili, Carmine Catenacci, Pietro Giannini e Liana Lomiento, e continuato nel 2013 con Le Pitiche, ancora una volta accompagnate dall’acume critico di Gentili e Giannini, e dal prezioso contributo di Ettore Cingano e Paola Angeli Bernardini.
A distanza di sette anni dall’uscita delle Pitiche, Le Nemee riprendono dunque un progetto di largo respiro, teso a lumeggiare al meglio ogni aspetto di uno dei poeti centrali della paideía ellenica. Fra gli autori del canone lirico, Pindaro ha in effetti la reputazione più controversa, nonostante l’aura di adamantina grandezza che già in antico gli proiettavano intorno i giudizi di grammatici e retori. Basterà a quest’ultimo proposito ricordare, banalmente, il suggello dell’anonimo trattatista del Sublime, che anteponeva la poesia dell’aquila tebana, vertiginosa pur con le sue occasionali cadute, al sempre corretto e impeccabile, ma meno sorprendente Bacchilide.
Maria Cannatà Fera pone in evidenza sin dall’introduzione la natura ambigua della ricezione di Pindaro presso gli antichi e i moderni, seguendone la fortuna secondo un approccio di indagine non lineare, che è quasi immagine delle movenze stilistiche del poeta. Il paesaggio frastagliato della critica pindarica spazia dalla condanna della commedia per bocca di Eupoli, e in minor misura dello stesso Aristofane, all’esaltazione da parte di Orazio. Molti infieriscono sull’autore degli epinici con accuse di «cortigianeria, oscurità, digressioni, mancanza di unità, vacuità», accuse che derivano, fra l’altro, da visioni prive di storicità, che non tengono conto dell’occasionalità della produzione dei poeti corali. D’altro canto, nel tempo moderno, si distinguono valutazioni nettamente più favorevoli, come quelle di un Foscolo, che non vede alcunché di deplorevole o mercenario nell’arte del poeta corale internazionale, pagato dall’aristocrazia per celebrarne le vittorie sportive: in definitiva, Pindaro si serve dell’esteriore occasionalità dell’epinicio per ribadire la dimensione normativa della paideía, il tessuto etico della religione civile dei Greci. Attraverso questa non lineare disamina della fama del poeta, del suo Fortleben di epoca in epoca, Maria Cannatà Fera viene costruendo per slittamenti successivi un’interpretazione dell’opera pindarica che dissolve le precomprensioni dei filologi precedenti, incluse quelle del Wilamowitz, che pur nel quadro di una valutazione non ingenerosa, riteneva il poeta tebano estraneo ai fermenti intellettuali, tutti ionico-attici, della sua epoca. Pindaro esprime, pur da poeta occasionale e legato alla committenza, le tensioni della sua epoca di transizione, che vede tramontare gli istituti antropologici propri dell’età tardo-arcaica.
Nel communal drama incentrato sulle imprese di cittadini illustri, ma non eroici, eguagliati come di prammatica agli eroi del mito, lo stile e la poetica di Pindaro, in tutti e quattro i libri di epinici, ma in specie nelle Nemee, sono organati in modo da conferire al dedicatario un’aura di esemplarità, ma nello stesso tempo sono calati nella storia: Pindaro è un’erma bifronte, fra ordinarietà e sublime (hýpsos e tapeínosis), fra tradizione e processi evolutivi, fra arcaismo gentilizio e tribale ed età della polis. Di questa duplicità l’interpretazione filologica proposta in questa nuova edizione mette in chiaro gli snodi e l’armonia occulta, più forte della bipolarità apparente.
Quanto alla costituzione critica del testo, Maria Cannatà Fera presenta un agile trattamento delle fonti manoscritte medievali, ma l’apporto più originale è dato dal contributo della tradizione papiracea di Pindaro e delle Nemee in specie, un campo che è venuto arricchendosi in questi anni anche grazie ai preziosi contributi di studiosi come Giovan Battista d’Alessio e della stessa curatrice, che in particolare dell’edizione del Papiro Laurenziano III/310 C, latore di testimonianze del testo delle Nemee, ha curato l’editio princeps insieme a Rosario Pintaudi. Dal punto di vista della metrica, l’approccio di questa edizione delle Nemee mostra un solido impianto teorico, anche se meno originale, rispetto alle innovazioni di prospettiva della Lomiento.
Di particolare interesse è lo stile della resa poetica, in stichi più vicini al verso libero di andamento logaedico, propri dei ditirambi alcionii, che alla prosa vagamente cadenzata della traduzione alineare intesa in senso stretto. Da questo punto di vista, e con l’eleganza naturale del suo dettato, che riesce a restituire l’equilibrio fra espressione sublime e ordinarietà proverbiale, la proposta di Maria Cannatà Fera è perfettamente congrua rispetto alle impostazioni di metodo e alle dinamiche esegetiche e interpretative messe in campo nell’introduzione e nel commento. Frequente, nello stile critico-filologico del saggio d’apertura, è la trama di citazioni che collegano il testo antico e il suo Fortleben con la sua eco nella poesia «militante» del tempo moderno. Così, per esempio, l’aspetto di paideutica civile del pindarismo suggerisce il confronto fra Pindaro stesso e poeti come il proto-romantico greco Dionysios Sólomos, autore dell’Ode alla libertà (1823) e Melvin Tolson, il novecentesco «Pindaro di Harlem», autore del Libretto for the Republic of Liberia (1953). Accade talora che le note dell’introduzione e del commento seguano il cammino di Pindaro nella memoria dei poeti contemporanei, in specie nella tradizione del Novecento, da Enrico Thovez a Ezra Pound, ma anche la sua fortuna nelle età precedenti. Accade allo stesso modo che la traduzione assuma forme e strutture da canzone libera, con l’avvicendarsi di endecasillabi e settenari, o di versi che ne ricalcano il ritmo, e con il mescolarsi sul piano stilistico di espressioni nettamente auliche e formule apparentemente più colloquiali. La coerenza stretta e sistematica fra l’impianto metodologico del critico e il dettato della traduzione è un pregio assai raro: è questa, fra gli altri, la qualità più notevole della nuova edizione delle Nemee, la caratteristica che rende ragione del lavoro filologico della curatrice trasformandolo in visibile e concreta ricodifica del messaggio poetico di Pindaro.

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