Pilotta, Museo farnesiano, un’enciclopedia
A Parma, il riordinamento Con l’Archeologico, fine dei lavori durati sei anni. Il nuovo disegno non punta sulle opere-feticcio, ma su blocchi di senso: e rispetta la linearità storica
A Parma, il riordinamento Con l’Archeologico, fine dei lavori durati sei anni. Il nuovo disegno non punta sulle opere-feticcio, ma su blocchi di senso: e rispetta la linearità storica
E’ banale ribadire che nel museo le cose si custodiscono, studiano, restaurano, ma ciò che conta non è solo la buona salute della collezione. È attraverso l’allestimento che si ritrasmette senso agli oggetti, sviluppando un processo di conoscenza. Così i quadri, gli arazzi, le statue, le oreficerie possono diventare prove per la soluzione di un rebus storico, suggestionare o solamente bisbigliare nelle orecchie dei visitatori richiamando aspetti della cultura, del gusto, della gestione del potere di un determinato contesto; ma quando l’allestimento non funziona, la custodia sorvegliata può persino coincidere con una perdita. Si può avere e accumulare tutto in condizioni ottimali, ma inaridire la voce degli oggetti perdendo il senso del futuro come ventaglio di possibilità combinatorie.
Tanto più la stratificazione storica ed edilizia del luogo deputato all’esposizione è composita, tanto più sarà complesso l’allestimento. Nella maggior parte dei casi, almeno in Italia, i musei occupano costruzioni antiche nate con altri scopi. Come nelle chiese – che non a caso si pongono all’origine di queste abitudini culturali –, si mescolano fruizione pubblica, preoccupazione per l’esposizione e tutela dei manufatti che si arricchiscono di valore simbolico. E tra le prime, e certamente tra le più importanti raccolte collezionistiche del passato in cui queste attitudini prettamente museali sono espresse in alto grado, c’è quella dei Farnese.
Iniziata con i ritrovamenti presso le Terme di Caracalla a metà Cinquecento, la collezione Farnese cresce insieme al palazzo romano della famiglia: architettura e colossi antichi dialogavano in un’apparecchiatura scenografica che rispondeva a un complesso disegno culturale. Poi le vicende politiche mutano, e il centro delle fortune familiari si sposta a Piacenza poi a Parma. Per costruire i nuovi complessi adatti a contenere la corte farnesiana non mancavano gli esempi, come l’Escorial a Madrid o gli esperimenti di Vespasiano Gonzaga a Sabbioneta. Il potere andava ostentato, ma anche gestito e radicato in una storia secolare attraverso la memoria del passato, le lettere e le arti. Il duca Ottavio creava così a Parma un edificio che rispondeva a necessità funzionali e simboliche.
Ecco un altro punto: l’allestimento si modifica non solo perché muta il luogo deputato a contenere la collezione, ma per aggiornare con il linguaggio della contemporaneità il messaggio che essa deve proporre. Così la collezione si adatta e arricchisce per rispondere alle attese, a un pubblico e a un gusto che cambiano. E mentre il palazzo romano della famiglia Farnese rimaneva quasi disabitato, nel Seicento nella residenza parmense si trasportavano arredi e opere, e alla Pilotta cresceva la galleria ducale. Il nuovo museo farnesiano era diverso da quello che a Roma aveva allestito il cardinale Alessandro, anche se l’idea di fondo era la stessa: ordinare e mostrare le magnifiche raccolte ducali per far conoscere al mondo il livello culturale della famiglia.
Quando la dinastia si estingue, Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese e re delle Due Sicilie, porta tutto con sé a Napoli. A Parma la Pilotta è frammentata e la galleria resta per un po’ una scatola vuota, fino all’Illuminismo. Finché Filippo di Borbone fonda l’Accademia di Pittura, Scultura e Architettura, che occupa una serie di ambienti fino alla Rocchetta. Per risarcire la piccola capitale il duca comincia anche una campagna d’acquisti: la Madonna di San Gerolamo di Correggio entra alla Pilotta nel 1764; il patrimonio si arricchisce anche di opere contemporanee, si accoglie la nuova Biblioteca Parmense e si istituisce un museo archeologico per ospitare il materiale proveniente dagli scavi di Veleia. Più avanti entrano in Pilotta dipinti provenienti da chiese e conventi soppressi, e lo spazio si modifica ancora, trasformandosi in un museo in senso moderno, ordinato scientificamente, con un allestimento coerente e un proprio catalogo. Il primo direttore è Corrado Ricci, all’inizio di una carriera folgorante nell’amministrazione del patrimonio artistico. E siamo al Novecento, e quindi ai disastri che i bombardamenti del secondo conflitto mondiale provocano alla galleria e al Teatro Farnese.
La ricostruzione avviene tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei Sessanta del secolo scorso. L’architetto Guido Canali rende la Pilotta un cantiere sperimentale, cercando di far dialogare strati storici ed esigenze nuove.
Gli strappi della guerra sono ricuciti con una tessitura di tubi innocenti dipinti di bianco: al mattone antico si appoggia quindi un’architettura effimera, mutevole, tutt’altro che mimetica, che non vuole essere definitiva. E per grandi falcate arriviamo al museo di oggi, ai riallestimenti e alle riaperture, pezzo dopo pezzo, degli ultimi sei anni.
L’area espositiva comprende collezioni eterogenee, dall’archeologia al contemporaneo; non si è ceduto – e questo è uno dei meriti del direttore, Simone Verde, e del suo staff – alla tentazione di ripensare il museo intorno alle opere feticcio, che pure ci sono (basterebbero la Scapigliata di Leonardo o il Giorno di Correggio), ma di valorizzare dei blocchi di senso, come le sale densissime dedicate all’arte emiliana tra Cinque e Seicento che si aprono con un’infilata di opere di Girolamo Mazzola Bedoli (da considerare non solo per ragionare su Parmigianino, di cui il pittore era parente stretto), continuano soppesando l’eredità di Correggio, l’attività di Carracci e bottega (c’è da fermarsi di più su uno dei capolavori del modenese Schedoni) e dei caravaggeschi in Emilia; o il medagliere ordinato nella passerella dell’area ovest; o il teatro Farnese, di cui sono sfruttati gli spazi delle sottogradinate per raccontare la storia stessa dell’edificio, mentre un videomapping rifonda idealmente dai danni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale; o il bellissimo Museo Bodoniano posto al termine della Biblioteca Palatina.
Con l’ultima, recentissima inaugurazione del nuovo allestimento del Museo Archeologico Nazionale si è quindi recuperata la totalità di un museo enciclopedico, legato alla città, che non cancella niente, che non stravolge l’esistente con letture asincrone e del tutto soggettive della linearità storica, ma si mette a disposizione aggiornando con rispetto e integrando la propria in una storia più grande. Intorno a questi oggetti che avvolgevano la vita e che ancora possono dire la loro, il museo riafferma i propri valori fondanti, che devono essere antirazzisti e democratici. È importante, in un mondo che sbanda abbagliato dai meme di una politica che parassita frustrazione e ignoranza, rinforzare le roccaforti della cultura mantenendone le complessità, contro le semplificazioni binarie di un potere che può persino arrivare a considerare il museo non come spazio per la formazione del pensiero, ma come luogo per arruolare adepti pronti a dividere il mondo tra buoni e cattivi, scegliendo chi sono gli uni e gli altri.
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