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Pietrostefani, Petrella e gli altri. La «pena certa» quarant’anni dopo

Pietrostefani, Petrella e gli altri. La «pena certa» quarant’anni dopo

Gli arrestati Solo l’ex di Lc si proclama innocente. Gli altri ammettono pesanti responsabilità

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 29 aprile 2021

Quando, nel 1993, dopo la sentenza d’appello che la aveva condannata all’ergastolo per vari reati commessi dalla colonna romana delle Br incluso un omicidio, si apprestava a riparare in Francia, Marina Petrella già rifiutava di parlare di politica. Era già una donna molto diversa da quella che era stata arrestata nel 1982 con il marito Gigi Novelli, scomparso l’anno scorso.

Erano passati 10 anni. Ora ne sono passati altri 30. La donna di 66 anni che con gran soddisfazione di media, governanti e appassionati della «pena certa» tornerà presto nelle patrie galere non ha più nulla della ragazza che negli anni del grande conflitto sociale aveva militato nel gruppo romano di Viva il comunismo, era entrata nelle Br con il marito e il fratello Stefano, era stata arrestata, scarcerata per decorrenza termini, entrata in clandestinità, arrestata di nuovo dopo uno scontro a fuoco su un autobus.

Marina aveva partorito in carcere. La figlia, Elisa, aveva passato i primi anni in cella, come usava allora, salvo poi ritrovarsi sbattuta fuori e sola perché anche questo usava allora. Dopo 8 anni di carcere la ex dirigente delle Br voleva un’altra vita. Se la è costruita a Parigi, con un marito immigrato dall’Algeria, una seconda figlia nata nel 1998, pochi soldi, sempre assediata dalla paura di quel ripensamento della Francia che adesso è arrivato.

Chi pensa che non abbia pagato niente non sa di cosa parla. Nel 2008 quello spettro dell’estradizione per Marina Petrella si era già materializzato una volta. Arrestata in un controllo stradale nell’agosto 2007, pronta per l’estradizione in dicembre. Si mise in mezzo la moglie dell’allora presidente Sarkozy, Carla Bruni, probabilmente su spinta della sorella Valeria Bruni Tedeschi.

Sarko scrisse una lettera a Napolitano chiedendogli di concedere la grazia. Il Colle rispose picche, neppure tanto diplomaticamente. Sarkozy si appellò all’intesa umanitaria tra Italia e Francia firmata nel 1957 e bloccò l’estradizione.

Anche il figlio di Roberta Cappelli è nato in carcere, ma nel suo caso, tanto per far sentire il peso dello Stato, con gli agenti armati in sala parto. Non ci fece caso nessuno. Era una terrorista, no? La storia di Roberta non è molto diversa da quella di Marina. È una storia di quegli anni, non la si può capire astraendo dal contesto in nome di una giustizia alla Javert. Militava in un gruppo famoso a Roma, attivo nel quartiere popolare del Tiburtino, «i Tiburtaros».

Da lì entrò nelle Br, partecipò a numerose azioni, passò i suoi in carcere, provò a espatriare una prima volta, fu ripresa, fuggì di nuovo. Si ricostruì una vita a Parigi con il marito, uomo di sinistra ma lontanissimo da tentazioni armate, e con un figlio che ha dovuto combattere sempre con il trauma di quei primi anni passati in galera.

Marina Petrella, come Giovanni Alimonti, centralinista della Camera e brigatista, come Enzo Calvitti e Sergio Tornaghi, anche loro ex Br, come il bergamasco Narciso Manenti, che invece faceva parte di uno dei tanti gruppi minori che presero le armi in quel decennio, hanno cercato di lasciarsi alle spalle una scelta per cui avevano (alcuni) sacrificato vite altrui e messo in gioco la propria.

Quella scelta Giorgio Pietrostefani, il più noto tra gli arrestati di ieri, non la ha mai fatta. Era uno dei principali dirigenti di Lotta continua, il duro, il paladino della «centralità operaia», opposta alle insorgenze innovative dei giovani e delle donne, che alla fine, nel 1976, decretarono lo scioglimento del gruppo.

Pietrostefani abbandonò la politica allora. Finì dall’altra parte della barricata non per modo di dire: dirigente delle Officine Meccaniche Reggiane. Con Sofri e Ovidio Bompressi fu accusato nel 1988 di aver ucciso il commissario Calabresi 16 anni prima. A differenza di Sofri fuggì in Francia, tornò per il processo nel 1997, dopo due anni di carcere e la nuova condanna passò di nuovo il confine clandestinamente. Pietrostefani avrebbe dovuto essere graziato.

L’allora presidente Ciampi era deciso a firmare la grazia. Il guardasigilli leghista Castelli si oppose e ne nacque un conflitto di giurisdizione risolto a favore del Colle dalla Consulta. Ma quando arrivò la sentenza Ciampi non era più presidente da tre giorni e il successore, Napolitano, graziò Bompressi ma non Pietrostefani. Che oggi è un uomo vicino agli 80, col fegato trapiantato da 5 anni, parecchio malato.

Tra gli arrestati di ieri solo l’ex di Lc si proclama innocente. Tutti gli altri ammettono responsabilità pesanti. Ma i politici e i giornalisti che tripudiano dovrebbero almeno chiedersi se mettere in galera dopo 40 anni persone che hanno commesso delitti politici in una fase storica superata e che da allora sono cambiati tanto da diventare persone diverse sia nobile giustizia o meschina vendetta.

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