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Pietro Gori, il cavaliere errante dei radicali libertari

Pietro Gori, il cavaliere errante dei radicali libertariPietro Gori

Movimenti storici Protagonista dell’anarchismo europeo, Pietro Gori consumò le sue vicende più drammatiche tra il 1890 e il 1895: Massimo Bucciantini gli dedica un saggio, «Addio Lugano Bella», Einaudi

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 2 agosto 2020

Molto amata per le sue note struggenti, che hanno risuonato a lungo nei circoli, nelle sezioni e nelle manifestazioni radicali e di sinistra, coinvolgendo e commuovendo generazioni di militanti, la più famosa canzone anarchica italiana, Addio Lugano bella, venne composta nel 1895, e il suo vero titolo, Canto degli anarchici espulsi, ne rivela immediatamente il senso. Il testo racconta, infatti, di un gruppo di esuli di vari paesi, molti dei quali italiani, improvvisamente arrestati, ammanettati e condotti alla frontiera tedesca da un Confederazione svizzera che, interrompendo le tradizioni liberali di accoglienza, e immemore – ricorda la canzone – della tradizione libertaria di Guglielmo Tell, si piegava al senso comune che voleva nell’anarchico un malfattore, vero e proprio pericolo pubblico. L’autore, Pietro Gori, uno degli espulsi, è stato una figura di spicco dell’anarchismo europeo e la sua esistenza è ora riscoperta e raccontata in un volume appassionato di Massimo Bucciantini, Addio Lugano Bella Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani (Einaudi, pp. euro 30,00).

Scritto accuratamente, con uno stile che punta a coinvolgere il lettore attraverso notazioni e riflessioni personali dell’autore, il libro è un’indagine su un individuo difficile da inquadrare, brillante e sfuggente. Gori fu infatti dotato di una personalità affascinante e poliedrica, in cui convivevano, senza troppo confliggere fra loro, varie figure: quella dell’organizzatore e dirigente politico anarchico impegnato e influente; quella dell’avvocato penalista di grido, dotato di uno stile oratorio di grande efficacia; quella dello scrittore, giornalista e commentatore di varie testate di stampa; quella del poeta, conferenziere e drammaturgo, appassionato e molto seguito; e quella dello studioso della marginalità sociale, a cavallo tra sociologia e criminologia.

Oratore scintillante
Pur abbracciandone l’intera vita, il testo di Bucciantini non costituisce però una vera e propria biografia di Gori: offre invece una selezione di momenti e di esperienze illustrative dei tratti essenziali di questo straordinario individuo, ribelle e idealista, «elegantissimo, con quel faccione tondo che sprizzava simpatia, i baffi ben curati, la testa alta, gli occhi vivi lo sguardo fiero». A suo modo, un leader.
Il Gori qui raccontato è anzitutto un giovane studente di giurisprudenza, che sceglie di vivere in soccorso agli emarginati e agli sfruttati, ai «derisi e dimenticati dal mondo» e che, una volta divenuto avvocato, si dedicherà alla difesa dei perseguitati dalla polizia crispina. Una specie di missione, esercitata a lungo, con dedizione, muovendosi in una terra di antiche tradizioni sovversive, mazziniane e garibaldine, disposta tra Pisa, Livorno e l’isola d’Elba. Qui, nelle fiaschetterie e nei circoli, nelle mescite e nei caffè, nelle osterie e nelle feste popolari, «brulicanti di passioni politiche e della volontà di mettere sottosopra il mondo», Gori diverrà un mito. Dotato di un’oratoria scintillante, immaginifica, piena d’ironia, mescolava un cristianesimo radicale attento alla salvezza degli «ultimi» cui era promesso «il regno dei cieli» ai temi della questione sociale e della rivoluzione che sarebbe venuta. Parlando dunque il linguaggio delle emozioni, Gori smuoveva le coscienze, e spingeva all’azione politica.

Era perciò strettamente sorvegliato dalle forze di polizia, le quali, anche loro, finivano per riconoscerne le qualità. Un tenente dei colonnelli di Pisa, tale Zampieri, il 2 dicembre 1881 lo descriveva così: «Dotato di un’intelligenza superiore, di modi gentili, non gli è ignoto nessun lenocinio della parola, che ha facile, smagliante, persuasiva; tal che egli esercita un fascino irresistibile sulle classi operaie e diseredate».

Ma è soprattutto nei primi anni Novanta che la figura di Gori viene alla ribalta con forza, essendo diventato, assieme a Errico Malatesta e a Francesco Saverio Merlino, uno dei promotori del tentativo, presto sconfitto, di trovare la vera fisionomia dell’anarchismo italiano facendone un partito, diverso e distinto dai socialisti gradualisti e riformisti che Turati conduceva, dopo il congresso di Genova del 1892 a un difficile e travagliato percorso parlamentare; la linea del partito anarchico, però, mentre rigettava il ricorso alle elezioni e la lotta per far fronte ai più immediati e pressanti bisogni delle masse popolari, non coincideva d’altra parte col frammentato universo nichilista, preda di quel che si chiamava allora il «ravasciolismo», ovvero il fascino per la figura eroizzata di Ravachol, l’anarchico francese vendicatore degli oppressi, teorizzatore dell’uso indiscriminato della violenza per colpire la borghesia oppressiva e suscitare nelle masse l’ urgenza della rivoluzione. In tutto il Vecchio Continente, gli anarchici nichilisti, spingendo all’estremo la teoria della «propaganda col fatto», teorizzavano e praticavano l’uso del terrore, inaugurando quella fase della storia europea nota come «l’era degli attentati», in cui si verificò un’impressionante serie di assassinii di capi di stato e di governo.

Tra il 1890 e il 1895 si consumava così la stagione più drammatica e intensa della vita di Gori, segnata dalla crisi economica, dai rivolgimenti sociali (in Sicilia l’agitazione dei «fasci» e in Lunigiana i moti), e dalla approvazione da parte del governo guidato da Francesco Crispi delle leggi contro gli anarchici, cui la nuova scienza criminologica lombrosiana, votata alla determinazione biologica del delitto, offriva un ambiguo sostegno. L’internazionale anarchica, ascesa al primo posto nelle agende di tutte le cancellerie europee, diveniva un vero e proprio spauracchio e Gori ne subiva le conseguenze, un arresto dopo l’altro, fino all’esilio forzato a Lugano. Espulso successivamente dalla città, si condannò a una vita da girovago tra Londra e l’Argentina; salvo tornare più tardi, col nuovo secolo, in Italia, dove nel frattempo circolava già il mito di lui come «cavaliere errante» del radicalismo libertario.

L’aurora è pigra a venire
Gramsci criticò aspramente i tratti di quella popolarità fondata su ciò che definiva un «libertarismo generico» (inteso come «un modo di pensare e di esprimersi che sente di sagrestie e di eroismo di cartone») ma ammise che quei modi e quelle forme erano «penetrate molto profondamente nel popolo» e, aggiunse: «hanno costituito un gusto». Oggi che ci è chiara la dimensione anche politica delle emozioni, questa nota invita a riflessioni meno sprezzanti. Gori, del resto, aveva perfettamente chiaro, da parte sua, il problema: «Conquistare la ragione, la mente, non basta se non si conquista anche il sentimento, il cuore».
Più tardi, nel 1907, sfumate ormai molte illusioni sulla rivoluzione un tempo ritenuta incombente, con il suo stile metaforico Gori delineava così, con disincanto, quel sol dell’avvenire di cui era stato cantore: «Laggiù dovrà affacciarsi il chiarore, poi il raggio grande. Ma la verità coraggiosa deve essere detta: L’aurora è pigra a venire: e gli uomini sono vieppiù sonnacchiosi…il sole è ancora lontano».

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