Visioni

Pierre Yameogo, il mondo tra la brousse e la città

Pierre Yameogo, il mondo tra la brousse e la città

Cinema Addio al regista burkinabé, autore di «Laafi» e«Delwende». Il Burkina, le donne, i ragazzi, la sfida alla tradizione

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 3 aprile 2019

Narratore sofisticato e spiritoso Pierre Yameogo, cineasta burkinabé della nuova onda degli anni Novanta, sin dall’esordio nel 1987 con il mediometraggio Dunia (prima in effetti c’era stato il corto L’oeuf et la silhouette, 1984), un on the road di una bimbetta di dieci anni, aveva fatto viaggiare le sue storie tra villaggi e metropoli, conoscitore sensibile di entrambi lui figlio di contadini, amante di Pasolini e sostenitore della rivoluzione di Thomas Sankara che nel cinema aveva visto l’arma democratica e «dal basso» per arrivare a più persone in un Paese con diffuso analfabetismo.

A QUESTO giornale (in una conversazione del 1991) diceva: «Amo Pasolini perché ha saputo raccontare l’Italia dei suoi anni con grande sensibilità. Se avrò i mezzi voglio continuare a fare film che danno voce alla mia realtà, mischiando come faceva lui la storia, il passato, la tragedia classica. Il suo era un cinema universale. Anch’io vorrei parlare del mio Paese con un linguaggio accessibile a tutti». Il film in questione era Laafi – Tutto va bene! (1991), un Ecce Bombo africano che tra feste, amori, sbornie e scherzi segue ventiquattro ore nella vita di uno studente in attesa con altri diplomati della sua prossima destinazione universitaria calata dall’alto. Era la prima volta che si parlava dei giovani nel Burkina Faso di Compaoré dando voce alle loro attese frustrate e al sentimento diffuso della mancanza di futuro e anche per questo era stato un grande successo.

Pierre Yameogo è morto ieri a Ouagadougou, aveva 63 anni e nei suoi film aveva cercato di continuare quella scommessa di un racconto legato alla sua realtà e al tempo stesso di riflettere il mondo. Il suo ultimo film è stato Bayiri, la Patrie (2011), per finirlo Yameogo aveva dovuto lottare visto il soggetto «sensibile», l’esodo dalla Costa d’Avorio dei burkinabé massacrati nel 2002 dalla pulizia etnica messa in atto con il colpo di stato e la guerra civile. Yameogo denuncia il nazionalismo degli ivoriani e l’inadeguatezza ( e l’ indifferenza) delle autorità burkinabé di fronte ai profughi scegliendo come punto di vista quello femminile: i personaggi di una madre e di una figlia le cui esistenze vengono devastate dalla brutalità uguale a quelle subite dai migranti e dalle migranti di ogni tempo e paese.

«BAYIRI» era stato proposto al Fespaco, il festival biennale di cinema a Ouagadougou nel 2013 ma quell’anno l’ospite d’onore era la Costa d’Avorio così gli organizzatori avevano deciso di non mostrarlo. Yameogo aveva denunciato le pressioni del governo ivoriano chiamando in causa anche Canal+, nuovo sponsor del Festival che lo aveva pre-acquistato senza diffonderlo.
Nato nel 1955 a Koudougou, Yameogo si forma alla televisione nazionale, all’inizio voleva lavorare come giornalista, poi va a studiare in Francia, a Parigi, dove fonda una società di produzione, la Afix productions. Dopo Laafi- Tutto va bene! che era stato presentato alla Sémaine de la critique di Cannes e accolto come la rivelazione di un nuovo regista, Yameogo realizza Wendemi, l’enfant du bion Dieu, col quale torna a Cannes (Certain Regard). Ma la ricerca di un ragazzo delle sue origini familiari tra la brousse e la città ottiene meno consensi.

Non è questa però la causa principale del tempo che impiega per girare il film successivo, Silmandé (1998) boicottato dal governo del Burkina per i riferimenti alla politica e alla società burkinabé. Si parla dei ricchi libanesi di Ouagadoudgou – attraverso una famiglia di opulenti commercianti – e dei loro rapporti col potere, ma soprattutto nella coppia protagonista è esplicito il riferimento al dittatore Blaise Compaoré e alla moglie Chantal, alla corruzione del loro regime e al saccheggio che da anni compiono contro il Paese – trionfante la moglie del presidente del film chiede ai libanesi di portare il suo oro in Svizzera. Sarà però lo stesso Compaoré a sbloccarlo con l’abile dichiarazione di non riconoscersi nel personaggio spacciandosi così per liberale mecenate. Successo di botteghino in Burkina Silmandé viene invece rifiutato a Abidjan dagli esercenti libanesi offesi.

DOPO un’incursione nella geografia parigina con Moi et mon blanc (2003), Yameogo torna in Burkina nello spazio tra città e campagna con il molto bello Delwende, leve-toi et marche (2005) – che il festival di Cannes non osa mettere in gara ma sempre al Certain regard – declinato di nuovo al femminile – tra le protagoniste la sorella del regista unica attrice professionista del cast, Blandine Yameogo. Di nuovo una madre e una figlia che combattono la caccia alle streghe nella brousse, ovvero l’uso della tradizione contro le donne e a vantaggio del patriarcato – accusando la moglie di essere una «mangiatrice di anime» il marito se ne libera condannandola alla miseria, all’esilio, alla morte.

Spiegava Yameogo: «Ho chiesto alle persone dove fosse l’anima che queste donne mangiano, nessuno è riuscito a rispondere. Gli uomini si sbarazzano delle loro ’streghe’, delle donne che non vogliono piegarsi come la mia protagonista utilizzando le tradizioni che fondano la comunità. Attaccarle è pericoloso ma si deve farlo, sono una vergogna per l’Africa e per gli esseri umani».

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