Cultura

Pierre Soulages, l’esordio del nero

Pierre Soulages, l’esordio del neroPierre Soulages posa davanti a una sua opera – Ansa

Ritratti La scomparsa a 102 anni del maestro francese dell'Informale. sulle sue tele monumentali, con movimenti reperntini dipingeva grandi segni colore della notte, come fossero sciabolate

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 28 ottobre 2022

C’è un documentario del 2004 in cui l’ottantacinquenne Pierre Soulages (Rodez, 24 dicembre 1919/26 ottobre 2022), commentava la Maestà di Cimabue del Louvre. Rigorosamente vestito di nero come suo costume, lo si vede attraversare a grandi falcate il museo, sostando in raccolta contemplazione della pala d’altare, salvo qualche breve e solenne gesto esplicativo.
Si era già presentata un’occasione analoga alla fine degli anni Sessanta, quando Pierre Schneider raccolse una serie di interviste, poi confluite in un libro, ad artisti contemporanei chiamati a esprimere il loro punto di vista sui maestri antichi lì esposti. L’attenzione di Soulages, in questo caso, si appuntò sulla superficie della monumentale tavola dipinta: quella di Cimabue gli pareva una pittura che non pretendeva di dare un’illusione spaziale, ma si risolveva interamente sulla superficie, negli accordi di rosa e di blu che provocavano un moto ascensionale, e nel rapporto dialettico con l’oro e il suo duplice statuto di colore applicato sul piano e di superficie riflettente, capace non solo di conferire all’insieme un tono brillante ma di restituire un riverbero luminoso.

PIÙ CHE DELL’ANTICO maestro medievale, in queste battute c’era molto della pittura di Soulages stesso, e viene da chiedersi se avesse impresso in mente questo modello quando, fra 1987 e 1994, attese alla realizzazione delle centoquattro vetrate dell’abbazia di Conques, nelle quali era riuscito a lavorare sul tema della luce diafana e di afflato mistico dell’architettura romanica senza al contempo tradire la vocazione della sua pittura, consacrata fin dagli esordi a un solo colore: il nero.
Già alla metà degli anni Quaranta, quando si registra la sua annessione a pieno titolo fra i maestri dell’Informale francese, aveva deciso di ridurre al minimo la propria tavolozza, lavorando su una base di pochi colori caldi e con larghe sciabolate nere come la pece.

LO AVEVA DETTO chiaramente in una intervista: la pittura, per lui, era la traccia sulla tela di un movimento della mano, la quale lasciava al fruitore il compito di riconoscere la sua azione, il processo e la durata con cui ciascun segno era stato tracciato e fermato nel tempo immobile della tela. Una pittura, insomma, come pura emozione registrata sul supporto. Non era difficile, con queste premesse, che Soulages arrivasse a formati monumentali, i soli che potessero contenere l’ampiezza di movimento delle sue lunghe braccia, ingaggiando ogni volta una lotta analoga a quella di Emilio Vedova – suo coetaneo a cui talvolta fu accostato da parte della critica italiana – seppur con un rituale più pacato e solenne rispetto al collega veneziano, ottenendone immagini più condensate. Presto, infatti, avrebbe accantonato certi debiti verso la cultura zen, che potevano apparentare certi gesti a ideogrammi d’invenzione, un po’ come era capitato al più anziano Hans Hartung: poggiando la tela a pavimento, il duello si sarebbe risolto in pochi e calibrati interventi volti a suggerire uno scatto repentino, un movimento che increspa la superficie come un inaspettato attacco sinfonico, creando un campo di tensioni.
Nella scuola di Parigi del secondo dopoguerra, prima di essere a tutti gli effetti l’artista più longevo, Soulages era stato per lungo tempo il più giovane e precoce a fare ingresso nelle file ufficiali dell’arte che lo stato francese esportava all’estero. A dispetto dei colleghi più anziani – da sempre dibattuti fra «astratto» e «concreto» senza attraversare mai la questione «autre» – da subito aveva però esplicitato di preferire il nero di Goya al colore di Matisse, fino al punto di fare dell’«autrenoir», o meglio del «noir lumière», non un procedimento formale ma una ragione poetica.

SI ERA RESO CONTO infatti che, come nella pala di Cimabue, poteva sfruttare un potenziale riflettente insito alla materia, giocando sugli effetti del colore modellando uno spesso impasto cromatico, in modo da variare l’incidenza della luce sulla superficie. Il quadro, dunque, diventava una vera e propria parete – come nella retrospettiva del Centre Pompidou nel 2009 – arrivando a una immersione totale e assorbente in un non-colore di sontuosa, emozionante pittura.

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