Pierre Boulez, il creatore intransigente
Musica È morto a 90 anni il direttore d’orchestra, saggista e compositore francese, un instancabile maestro dell’avanguardia sempre alla ricerca di novità.«Il mio lavoro - diceva - è stato un continuo viaggio verso la libertà»
Musica È morto a 90 anni il direttore d’orchestra, saggista e compositore francese, un instancabile maestro dell’avanguardia sempre alla ricerca di novità.«Il mio lavoro - diceva - è stato un continuo viaggio verso la libertà»
In una intervista al Tg3 dell’anno 2000, a Roma, dove tornava spesso e dove era l’unico tra i grandi dell’avanguardia musicale a essere accolto con dovizia di ascoltatori, letterati e snob compresi, Pierre Boulez aveva confidato: «Il mio lavoro è stato un continuo viaggio verso la libertà».
Doveva avere in mente, nel dirlo, la fama di freddo razionalista dogmatico che non smetteva di accompagnarlo. E, chissà, doveva avere in mente un suo brano recente (1996-1998), Sur Incises, per tre pianoforti, tre arpe e tre percussioni, ricco di accenti ritmici, labirintico, matematicamente barbarico, persino turbinoso, persino sensuale.
Dove finivano le accuse sul suo conto di fronte a una musica così? Forse aveva voglia di distruggere le ultime riserve che passavano nelle teste di tanti osservatori. O forse no. Forse non gliene importava niente. In fondo aveva sempre sostenuto di agire da libertario non da dogmatico, un compositore (e un direttore d’orchestra, occorre aggiungere) mosso dalla curiosità. «Se non sei curioso sei in una bara», era una delle sue frasi famose.
Adesso è in una bara per davvero. Non certo per consunzione da fine della curiosità. Solo per gli effetti finali di una malattia che lo opprimeva da tempo. È morto novantenne a Baden-Baden, in Germania, il 5 gennaio scorso. Risiedeva lì. Non più in seguito a una scelta polemica nei confronti della Francia, che negli anni ’60 lui accusava di essere sorda alle innovazioni in campo musicale. Quindi era meglio – allora – abitare e lavorare in Germania, non a caso il termine Neue Musik era stato coniato fin dai primi giorni di Darmstadt e per designare la musica nuova (nuova secondo i post-weberniani darmstadtiani) in tutto il mondo si usavano quelle due parole in tedesco.
L’abbiamo visto l‘ultima volta a Venezia nell’ottobre 2012 quando venne a ritirare il Leone d’oro alla carriera. Era già un po’ male in arnese. Stanco, malfermo. Però sempre brillante e acuminato. E combattivo: «Se non si desidera rinnovare il mondo, desiderio folle, come si sa, non si ha diritto di parola», aveva detto durante la conferenza in suo onore, davanti a un pubblico foltissimo.
Eppure una qualche rigidità nel suo itinerario di pensatore della musica – un pensatore sia nelle vesti di compositore e direttore sia nelle vesti di saggista, opinionista e polemista – era rimasta in circolo.
Ai tempi dei Ferienkurse di Darmstadt, la mecca della neoavanguardia del secondo dopoguerra, era il più rigoroso e intransigente nel predicare la serialità integrale e nel respingere le musiche che in un modo o nell’altro contenessero tracce di tonalità.
Era il più intransigente – si è sempre supposto, ma sarebbe il caso di ripensarci – anche nel respingere le musiche con un tasso di edonismo, di piacevolezza, di spirito di intrattenimento. Ancora in tempi recenti si è detto, specie tra i teorici e i divulgatori dei vari neo-romanticismi, che a Darmstadt era stato elaborato un decalogo severissimo e che da quelle lezioni era uscita una «polizia musicale» addetta a sorvegliare e punire tutti coloro, tra i musicisti, che non si adeguassero al formulario. E chi ci sarebbe stato, almeno come ispiratore non consapevole, dietro alla costituzione (tardiva) di tale «polizia» se non Boulez, pur riconosciuto come finissimo intellettuale?
D’altra parte era stato lui nel 1952 a scrivere quell’articolo intitolato «Schönberg è morto», sì, morto artisticamente il maestro riconosciuto della rivoluzione musicale più radicale del ‘900. E perché morto? Perché nelle opere tarde si vedeva affievolirsi lo slancio della ricerca e un ripiegamento su sequenze sonore tonali. Insomma, Boulez era un vero rivoluzionario. Un po’ alla maniera del 1789 o, se vogliamo, del 1917.
Aveva fame di nuovo, certo. Ma non si è fermato al nuovo degli anni giovani, quando con Stockhausen, Maderna, Nono, Pousseur, animava le discussioni e le sperimentazioni di Darmstadt. E in questo non fermarsi (e non involversi) non assomigliava ai suoi predecessori politici, francesi o russi che fossero. Aveva cominciato piuttosto presto a riscrivere completamente lavori già fatti ed eseguiti perché voleva metterci le particelle di linguaggio sonoro che aveva scoperto nel corso del tempo, magari come direttore di quell’Ircam parigina che proprio lui aveva fondato nel 1974 e dove si elaboravano le nuove musiche in rapporto con le nuove tecnologie. Ancora negli anni maturi un’opera come Incises, antesignana per solo pianoforte della meravigliosa Sur Incises, l’aveva scritta nel 1994 e riscritta nel 2001.
Dogmatico no. Tendente alla seriosità un pochino sì. Ma quante sorprese! Nel 1954 con Le marteau sans maître per voce di mezzosoprano, flauto, viola, chitarra, vibrafono, xilofono e percussioni, aveva cercato – sono le sue parole – «un arricchimento del vocabolario sonoro europeo tramite la presa in considerazione di ciò che è extra-europeo». Ci sono dentro il koto giapponese, il gamelan di Bali, il balafon africano.
Roba tipo maniaci delle «contaminazioni» a venire? Ma no! Si tratta di musica calibratissima, un post-post-debussismo da laboratorio, un gioco calcolato di volumi sonori in continuo confronto, in un divenire meticoloso. Ma di fascino ce n’è così tanto! Boulez ha sempre scritto musica con questo tipo di approccio, razionalmente avido di ricerca. Mettendo in pratica la sintetica formula di Nanni Balestrini, che in una intervista recentissima dice: «L’arte è fatta di emozioni della mente».
Anche nelle tre Sonate per pianoforte (1946, 1948, 1957-’58), considerate pietre miliari, troviamo il Boulez fervido ricercatore. Un inoltrarsi nella serialità integrale che nella trama rigorosa e nella sonorità lucidissima si apre a ricchezze timbriche e di fraseggio ben lontane dall’aridità.
Né arido né dogmatico. Boulez ha pronunciato parole terribili contro il rock, è arrivato a dire: «Un-due-tre-quattro, mi sembra l’essenza del nazismo». Eppure è stato lui a dirigere e registrare tre brani di Frank Zappa sul podio dell’Ensemble InterContemporain, la sua prodigiosa compagine di strumentisti: The Perfect Stranger, Naval Aviation in Art?, Dupree’s Paradise. Ce l’ha avuta con Cage per via dei giochi col caso e per via di opere che considerava superficiali, ma era pur stato lui a presentare e magnificare nel 1951 a Parigi Sonate e Interludi per pianoforte preparato, un lavoro dove l’edonismo non mancava.
La carriera di direttore ha portato Boulez alla popolarità e alla ricchezza. Senza timore diciamo che è stato il più grande del suo tempo. Niente bacchetta, gesti di essenzialità elegante. Ha fatto ascoltare tante volte la più entusiasmante, incalzante, moderna Sagra della primavera di Stravinsky. Ha infuso vita d’oggi a Wagner, magistralmente. Il segreto? Anche in questo le «emozioni della mente». E naturalmente ha reso al meglio, con il gusto dell’analisi e della ricerca, i compositori del ‘900, i tre viennesi, Schönberg, Berg, Webern, e tutti i suoi compagni di strada nell’avventura della musica contemporanea.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento