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Pierluigi Mattiuzzi, partiture visive a ritmo di free jazz

Pierluigi Mattiuzzi, partiture visive a ritmo di free jazz

L'artista La mostra si tiene al Kursaal fino al 22 settembre nell'ambito della XXX edizione delle Settimane musicali

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 22 settembre 2015

Che cos’hanno in comune una mostra di pittura e un festival di musica classica come le Settimane musicali di Merano? Per la trentesima edizione il direttore Andreas Cappello ha fortemente voluto qualcosa di speciale per questo compleanno importante: una personale dell’artista meranese Pierluigi Mattiuzzi che sin dal titolo Il suono di una mano sola suggerisce il forte nesso essendo i suoi quadri come delle partiture visive. E non solo: davanti all’entrata del Kursaal -l’elegante edificio Jugendstil dei primi anni del secolo scorso che fa da scenario alle esibizioni di musicisti e orchestre chiamate da tutto il mondo- giace una Donna volante in giallo e nero che beata galleggia tra forme reticolari e dolci colline. Il quadro scelto come leitmotiv della mostra, stampato a laser su grandi piastrelle, è stato inserito direttamente nell’asfalto grigio del marciapiede. Un bell’effetto tappeto su cui tanti piedi passano, accorgendosi e non, dell’intreccio di linee che annunciano alcuni segni dell’arte di Mattiuzzi. Per scoprirla basta andare nei Meeting Rooms presso lo stesso Kursaal (dove ha sede l’esposizione a cura di Franco Mazza, aperta fino al 22 settembre) immergendosi nel suo mondo di colori e forme che conducono in quella dimensione impalpabile leggera in cui ci immerge la musica: i dipinti di varie dimensioni dialogano tra loro creando un’atmosfera in cui sospensione e mistero sono le trame di un’ampia tessitura di un esteso infinito. Il mondo di bellezza irrequieta creato da Mattiuzzi utilizzando diversi tipi di colore o ritagli di carta rimanda alla ricerca spirituale per accedere all’ignoto, come negli enormi disegni a china nera in cui mezzelune a forma di navi (o astronavi) galleggiano nello spazio bianco che fa da sfondo trasportando sogni e incubi che ci portano fuori dalle nostre esistenze terrestri in altre galassie parallele. Un vuoto pieno. Vibrazioni silenti ci risucchiano per navigarci dentro, nell’affascinante mondo dell’in/canto, di un big bang del rigore accademico che si esprime in mille forme in un’espansione spazio-temporale di emozioni vissute, sognate, immaginate. Partiture visive a ritmo free jazz, dove ogni più piccolo dettaglio conferisce un senso al tutto. Presso i popoli antichi forme simili erano dipinte sui corpi per dar espressione al proprio essere percepito tra spirito libero, demoni e angeli. Vi si intravvedono anche forme mitologiche antiche dalle tradizioni hindù, azteche o Maya. “Eppure non li ho mai visti”, afferma Mattiuzzi sorridendo anche coi suoi occhi neri dallo sguardo profondo, “mi sono arrivati, quei simboli, emergendo dall’inconscio collettivo, come ci ha insegnato Jung sono immagini che tutti portiamo dentro”. E lui ha fatto guidare la sua mano sola con impeto da quegli impulsi interiori, con gesto pittorico che fa pensare all’energia creativo-fisica di un Pollock. Qui regna la “musica per gli occhi”, per usare un’espressione coniata nella Berlino degli anni venti di fronte ai primi film astratti che usavano forme ondeggianti o appuntite in movimento invece di illustrare le storie narrate con personaggi e scenari maestosi. In egual modo l’arte di Mattiuzzi (che nel corso di oltre quarant’anni di attività ha esposto in gallerie e musei tra Bolzano e Merano, ma anche a Perugia, Milano o Firenze) si potrebbe definirla come partiture visive suonate da ogni persona che le guarda entrando in sintonia con l’anima percependone gioia, ironia, amore, desiderio, rendendo visibile l’invisibile. Alcuni sono come tappeti astratti, altri creano volti o figure essenziali, paesaggi del sentire, che come fumetti narrano attimi di vita, e giustapposti in file verticali o orizzontali convergono e/o collidono con altre istantanee di emozioni per farsi film nella mente e nel cuore (sottolineato nelle tre proiezioni sul pavimento di alcuni dipinti). Ciò che affascina è l’atemporalità, ad esempio due volti giganti, maschile e femminile, in bianco e nero, uno di fronte all’altra, di fatto si compongono di tanti elementi-personaggi-simboli minori e le loro sommità formano città immaginarie: pensieri, esistenze quantistiche, neurini e neuroni raggelati in un fermo-immagine. Così come un omino dai tratti essenziali (una sorta di alter-ego del pittore?) che attraversa molti quadri, spesso nascosto tra mille altre forme umanoidi e asteroidali: in piedi, saltellando, a mani alzate, ripiegato su se stesso o a guardare un ipotetico altro da sé. Torna spesso anche la luna, astro celeste a noi più vicino, da spicchio sottile a quella che sorge, bianchissima, da un ampio cielomare blu che si fa orizzonte anche nelle dimensioni del quadro stesso: alto dieci centimetri si estende a due metri di lunghezza. O una luna piena dorata in mezzo a forme aliene che agisce da corto-circuito per occhi e sensi. Magiche visioni che in quadri più recenti si liquefanno in un libero fluire del colore ricoperto con resina per imprimere ciò che il caso (mai casuale) vuole. Uno stile parallelo, amorfo, in cui la stessa materia si dà forma come libero arbitrio tra un tempo che fu e un tempo che viene. La cultura è ciò che resta, urlano – metaforicamente parlando – dalla terza sala i totem esposti, in piedi, galleggianti, monocolori, segni incisi come cicatrici di ferite: a dimensione umana o di forme astratte occupano lo spazio, buio, voluto nero con illuminazione focalizzata per favorire una percezione-meditazione in armonia o disarmonia con quella “musica esposta” sulle pareti…

 

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