Cultura

Piergiorgio Branzi, la realtà è anche metafisica

Piergiorgio Branzi, la realtà è anche metafisicaMykonos, 1957 © Piergiorgio Branzi/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

Ritratti La scomparsa a 93 anni del fotografo che amava il bianco e nero, i racconti di viaggio e la cinepresa oltre alla Leika. Per la Rai seppe cogliere i cambiamenti urbanistici dell'Unione sovietica negli anni '60

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 30 agosto 2022

«La fotografia è l’effetto del vedere», diceva Piergiorgio Branzi (Signa, 6 settembre 1928 – Campagnano di Roma, 27 agosto 2022) con l’accento fiorentino mai dimenticato e i modi gentili che lo distinguevano. Un «vedere» che lasciava un discreto margine all’immaginazione, benché fosse focalizzato sulle istanze della fotografia sociale che diedero da subito un «timbro» alla sua cifra stilistica. Non è un caso che a orientarlo furono, nel ’52, le foto di Cartier-Bresson che ebbe modo di vedere a una mostra alla Strozzina a Firenze. Un «luogo iniziatico» fu, poi, la Libreria Editrice Fiorentina, fondata a Firenze da suo padre insieme a due amici. Una famiglia semplice la sua, e anche numerosa (sette figli), ma attiva e impegnata nel sociale. Quanto ai suoi mentori c’erano Walker Evans, Margaret Bourke-White, Paul Strand, Brassaï, Ben Shan, Robert Frank.

AMICO, tra gli altri grandi maestri, di Mario Giacomelli (conosciuto a Senigallia frequentando il gruppo Misa di Giuseppe Cavalli) e più tardi di Nino Migliori, Branzi iniziò la carriera da fotoamatore con una Condor (apparsa sul mercato nel 1947), per passare alla Rolleiflex e alla fedelissima Leica M. Il bambino con l’orologio, Comacchio, 1954 (presente nella monografia Il giro dell’occhio. Fotografie 1950-2010, curata da Alessandra Mauro e pubblicata da Contrasto nel 2015) – probabilmente la sua immagine più iconica – è la sintesi perfetta di una dote narrativa che traduce l’essenziale, intercettando l’istante con un’innata empatia. Nel «frame» di un’Italia indigente con ancora visibili le cicatrici della guerra, scenario in cui si muove il ragazzetto che porta sulle spalle un enorme orologio da taschino che fa tic-tac con le lancette inquiete, il soggetto si ferma per dare il tempo al fotografo di cogliere il suo riflesso nella pozzanghera. Una visione sdoppiata che lo stesso autore definisce «quasi metafisica», sospesa e allo stesso tempo vibrante d’energia. Lo scatto è in bianco e nero, come tutte le altre foto di Branzi, sia per scelta stilistica che per la necessità tecnica dell’epoca. Molte altre foto saranno scattate nel ’55 in giro per l’Italia (pubblicate su Il Mondo di Aldo Pannunzio), durante il viaggio sulla moto Guzzi 500 con il fratello della futura moglie (Gloria, compagna di una vita, madre dei suoi figli Simone e Silvia), da Rimini a Firenze attraverso l’intero stivale. Seguirà l’Andalusia con la Fiat 600 e, nel ’57, la Grecia. Sarà proprio la fotografia a indirizzarlo al giornalismo – «i fototesti erano più appetibili per i giornali» – cimentandosi anche con il reportage cinematografico.

Piergiorgio Branzi, courtesy Contrasto

LA SVOLTA ARRIVERÀ a Roma, nel 1960, anno delle Olimpiadi con l’assunzione alla Rai, grazie proprio alla sua abilità con la macchina cinematografica. Rimarrà in servizio per 33 anni con vari incarichi, dal telegiornale al coordinamento di servizi parlamentari. Parigi, Venezia, l’India, la Finlandia, il Nord Africa, i
Balcani, Casarza… ogni luogo è un frammento legato alla biografia di Piergiorgio Branzi. Particolarmente significativa sarà la parentesi sovietica (malgrado i divieti riuscì a documentare i cambiamenti urbanistici e sociali nella serie Mosca, 1962-1966), dove Enzo Biagi (allora direttore del telegiornale) gli propose di andare come corrispondente del primo organismo occidentale nell’Unione Sovietica dell’era Krusciov-Brežnev. Cinque anni di «esperienza umana» che gli permisero di riaccendere vecchie passioni mai assopite: la pittura e l’incisione.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento