Come epigrafe della raccolta di saggi, Un seme di umanità, pubblicata nel 2020, Piergiorgio Bellocchio aveva scelto una frase estratta da un passo dei Taccuini di Max Horkheimer: «Se soltanto conoscessi una parola migliore di “umanità” – questo povero slogan provinciale dell’europeo semicolto! Ma non ne conosco». Il punto di vista di un termine così elementare e, insieme potente, è una buona traccia per identificare alcuni aspetti della presenza di Bellocchio nella storia di questi anni. Le raccolte dei suoi interventi di critica sociale, culturale e di costume – Dalla parte del torto del 1989 o L’astuzia delle passioni del 1995 e Al di sotto della mischia. Satire e saggi del 2007 – offrono un osservatorio privilegiato per leggere umori ideologici, passioni intellettuali, tensione etica della generazione nata all’inizio degli anni Trenta e arrivata alle trasformazioni dei nostri anni. Il primato della politica resta, per questi testimoni venuti da lontano, la costante che regola l’incontro con la vita e con la storia.

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Nella premessa brevissima annessa alla raccolta letteraria del 2020, Bellocchio osserva «la tendenza a leggere di preferenza quella narrativa che illumina aspetti della storia sociale, verso i quali mi indirizzavano anche alcuni dei critici da cui mi è sembrato di imparare di più, come Edmund Wilson, Lukács, Adorno, senza dimenticare la saggistica di scrittori come Baudelaire, Proust, D.H. Lawrence, Orwell, Fortini… Più che dall’invenzione sono sempre stato attratto dalle testimonianze personali e dirette, dal giornalismo di reportage e dall’autobiografia». Allo stesso modo si spiega l’attrazione speciale per Dostoevskij e il romanzo russo, che «dopo Puskin è insomma ben poco “romanzesco”: è subito romanzo realista e di idee, di critica sociale e politica».

Angoscia dell’impotenza

L’interesse per la storia sociale dichiara un metodo e definisce una genealogia di autori della cui linfa nutrirsi. La letteratura e la politica sono i termini di una relazione vitale, che si rimette in gioco ogni volta, riportando i singoli fenomeni alle questioni decisive. La loro reciprocità contraddistingue il senso di un impegno integro, radicale, che teorizza la necessità dell’azione, ma avendo coscienza di quel rischio che lo stesso Bellocchio chiama «angoscia dell’impotenza». Questa polarità composta di contrari ha le radici nel quadro degli anni Sessanta e dei modelli filosofici allora vigenti. Il marxismo che quella generazione incontrava nasceva sulla base dell’esistenzialismo di Sartre e di Camus.

Assumeva contemporaneamente la lezione di Adorno e di Lukács; ne assorbiva gli stimoli e li traduceva in impegno politico quotidiano. Il marxismo non era un insieme di dogmi, un blocco di idee immobili, ma un campo di forze, che attirava nuove energie.

Da questi fermenti nasce l’esperienza straordinaria di Quaderni piacentini (1962-1984), che hanno accompagnato per circa vent’anni la riflessione sull’Italia e sul mondo. A dispetto del titolo, che definisce uno spazio marcatamente localistico, la rivista diventò un osservatorio originalissimo della vita politica nazionale, proponendosi come contenitore di quel marxismo critico che, dopo l’esperienza innovativa dei dodici numeri di Ragionamenti (1955- 1957), si era sostanzialmente disperso. La rivista guardava soprattutto allo scenario internazionale, mostrando pochissima attenzione a quelli che, in una tarda intervista, Bellocchio definì «i giochetti della politica di casa nostra, tipo correnti o sottocorrenti Dc… quelle cose cui l’Espresso e la Repubblica hanno sempre dedicato il massimo d’attenzione e di spazio».

Il risultato è una rivista di studio del mondo contemporaneo, nata intorno a un gruppo di intellettuali pieni di curiosità e di cultura: da Grazia Cherchi a Goffredo Fofi in primis, ai tanti compagni di strada, da Franco Fortini a Edoarda Masi, da Elvio Fachinelli a Federico Stame e Gianni Sofri, da Sebastiano Timpanaro a Cesare Cases e poi a Vittorio Foa e Elsa Morante.

La fioritura di Quaderni piacentini dipendeva da un lavoro a tempo pieno, inteso come scommessa collettiva e come disponibilità personale senza limiti. Un modello di impegno che non prevedeva deleghe e scommetteva sulla circolazione delle idee e sulle questioni sollevate. Il fervore politico di quegli anni poteva assumere anche forme estreme di abnegazione: «Avendo l’ambizione e l’orgoglio di gestire in toto la rivista, dalla programmazione degli articoli alla correzione delle bozze, dalla stampa alle spedizioni a abbonati e librerie, per non parlare della contabilità, il lavoro era a tempo pieno. In quegli anni si parlava molto di militanza. Io andavo molto meno di altri a distribuire volantini davanti ai cancelli delle fabbriche. Ma credo di essere stato un buon militante anch’io facendomi i calli alle mani a furia di confezionare pacchi che legavo con lo spago».

Come spendere la vita

Timpanaro ha definito Bellocchio «l’unico moralista che valesse la pena di leggere in Italia». Gli anni non hanno smussato quello spirito critico che ha funzionato come interprete vigile della nostra vita culturale. Indifferente alle mode o alle tendenze, poteva opporre Pastorale americana al Nome della rosa e liquidare la noia della Grande bellezza ricordando John Ford o Baciami, stupido di Billy Wilder. Forse l’omaggio che Bellocchio destinò a Grazia Cherchi può valere anche per lui stesso e per le sue avventure intellettuali: «La vita, pensava, va spesa secondo quello che è il proprio istinto, la propria etica e il destino che si è scelto, a prescindere dal fatto che ce ne resti molta, poca, pochissima».