Politica

Pier Carlo Padoan, dall’Ocse con un programma in tasca

Economia Docente alla Sapienza di Roma, è stato al Fmi e consulente di D’Alema e Amato

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 febbraio 2014

«Mi hanno chiamato a far il ministro» ha detto Pier Carlo Padoan prendendo un aereo da Sydney, dov’era impegnato per l’Ocse nel G20 come capo della risposta strategica sulla “crescita verde”, un sinonimo della Green Economy che l’Ocse coltiva sin dal 2008. Capo-economista e vice segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi, Padoan sarà il prossimo ministro dell’economia. Al petto porta anche la medaglia di neo-presidente dell’Istat ottenuta dal governo Letta. L’Istat si conferma una fucina di ministri “tecnici”, dopo la nomina di Enrico Giovannini al Lavoro nel precedente governo e resterà ancora senza un presidente che dovrà essere nominato dal governo di cui Padoan farà parte. Il Movimento 5 Stelle considera questa nomina un “vulnus” parlamentare e denuncia la “violazione delle procedure”.

Qualcosa più che un tecnico è questo docente di economia alla Sapienza di Roma, con una più che ventennale carriera da manager e ricercatore nelle maggiori istituzioni della governance economica mondiale. Il suo curriculum sciorina permanenze al Fondo Monetario Internazionale, dove ha ricoperto il ruolo di direttore esecutivo responsabile per i “Piigs” Grecia e Portogallo, tra gli altri. Dal 1998 al 2001 Padoan è stato anche consulente di Massimo D’Alema e Giuliano Amato alla Fondazione ItalianiEuropei dove ha ricoperto il ruolo di direttore. Potrebbe essere spiegato anche così il favore con il quale la sua nomina è stata salutata dalla minoranza Pd con Gianni Cuperlo.

Padoan torna in Italia con un’agenda di governo già pronta e controfirmata dalla sua organizzazione. Poco prima di lasciare Sydney, dopo la mezzanotte di ieri, l’Ocse ha diffuso il rapporto Going for Growth: la ricetta su come favorire la crescita in un paese in recessione a partire dal lavoro. Coincidenza forse non voluta, anche se nulla oggi capita a caso nel mondo dove l’expertise del sapere economico s’intreccia con la ricerca di “tecnici” formalmente neutrali da parte dei governi degli Stati-nazione in crisi come l’Italia. Padoan non fa eccezione. Parla inglese, è noto a livello internazionale, mostra tutti i criteri di affidabilità chiesti da Napolitano al giovane Renzi.

In Going for Growth ci sono ingredienti di politiche del lavoro che entrano in risonanza con il coté liberista temperato, sposato dal Pd renziano, e non solo, da tempo. Bisognerà capire cosa ne pensa il prossimo ministro del lavoro, ma rispetto al suo predecessore Saccomanni (ex Bankitalia) Padoan ha in più l’esperienza di chi ha intuito che da oggi fino almeno al 2050 la crescita economica sarà bassa e lenta, e non produrrà occupazione fissa. All’Ocse questo fenomeno è stato definito jobless recovery. Così lo definisce anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil). «È improbabile – scrive Padoan nell’introduzione al rapporto – che la creazione più rapida di posti di lavoro sia sufficiente per riportare i tassi di occupazione ai livelli pre-crisi, men che meno a livelli capaci di compensare l’impatto dell’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati». Padoan sa per certo che la disoccupazione «a doppia cifra» in Italia non registrerà segnali di «inversione» nel prossimo futuro. A differenza dei suoi predecessori questo è un elemento di chiarezza. Going for Growth può essere considerato il decalogo delle “riforme” per l’occupazione in Italia. Alcune sue coordinate sono presenti nella simil-bozza del Jobs Act di Renzi.

I sindacati drizzeranno le orecchie leggendo che l’Ocse chiede di riformare la contrattazione collettiva per rendere la negoziazione salariale più «reattiva» rispetto alle condizioni del mercato del lavoro. Inoltre c’è l’idea di usare i soldi del taglio del cuneo fiscale per finanziare un sussidio universale per i lavoratori e non il loro posto di lavoro. Questa è la premessa non per introdurre un reddito universale di base, ma per tagliare i diritti fondamentali di chi lavora, eliminando l’articolo 18 per i dipendenti o rendendo licenziabile chi ha un contratto precario. Il tutto in cambio di un’estensione dell’Aspi, un’assicurazione che è un contratto tra parti, non il risultato di un diritto universale riconosciuto a un singolo. Si chiede così di continuare con la riforma Fornero che allunga l’età pensionabile e penalizza gravemente il lavoro autonomo.

Oltre a riformare il sistema delle politiche attive, costituendo un’agenzia unica, l’Ocse chiede di continuare a privilegiare l’apprendistato come forma prevalente di ingresso nel mercato del lavoro. Elementi ritenuti utili per rispondere alle carenze di manodopera qualificata. Una ricetta applicata dal governo Berlusconi, dalle larghe intese di Monti e Letta. Ancora oggi è la chiave delle politiche della formazione. Il rischio, sempre più attuale, è continuare a svalutare il lavoro della conoscenza, e l’istruzione universitaria. Tutto ciò, si dice, «che non serve a trovare lavoro».

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