Visioni

«Piccolo corpo», l’elaborazione del lutto e la parola delle donne

«Piccolo corpo», l’elaborazione  del lutto e la parola delle donneUna scena da «Piccolo corpo» di Laura Samani. Una bimba nata morta, l’atto di ribellione della protagonista che non si rassegna

Al cinema Nelle sale il film d’esordio alla regia di Laura Samani, passato a Cannes

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 febbraio 2022

Non è un caso che Piccolo corpo nasca in casa Nefertiti Film, nella «factory» di Nadia Trevisan e di Alberto Fasulo, qui entrambi in veste di produttori. C’è qualcosa, infatti, pur con le ovvie differenze di significato e di sguardo, che accomuna l’opera prima della triestina Laura Samani, che ha meritatamente esordito l’estate scorsa a Cannes, nel programma della 60.a edizione della Semaine de la Critique, e il Menocchio, il film sul mugnaio eretico firmato dal regista sanvitese nel 2018. Più che altro una questione di corpi, di geografie umane, di pretesa del vero. Sia Samani che Fasulo, ad esempio, partono da un territorio: il Friuli. E nei volti della sua gente vedono un’estensione delle asperità delle montagne, dei boschi, delle piccole comunità, siano esse contadine o di pescatori, risalgano esse al Cinquecento o ai primi anni del Novecento.

IN ENTRAMBI i casi, inoltre, c’è un modo nuovo di approcciarsi al dramma storico, sulla scia di diversi recenti esempi che nonostante l’ambientazione nel passato, appaiono terribilmente contemporanei. Sia per forma che per contenuti. Nell’universalità dei temi affrontati, ma anche nel gesto e nell’immagine. E si pensa a Jauja di Lisandro Alonso, Zama di Lucrecia Martel, Monte di Amir Naderi (ancora con Fasulo dietro le quinte), Aferim! di Radu Jude, o ai più vicini cronologicamente Re Granchio di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi e Eles transportan a morte di Helena Girón e Samuel H. Delgado, altri esordienti che hanno debuttato la scorsa estate rispettivamente alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e alla Settimana della Critica di Venezia.
Il plus di Piccolo corpo, però, è in una «Questione femminile» (e anche, come si vedrà, di identità di genere) affrontata senza ideologie, dogmi, mode o astuzie di sorta. Il viaggio di Agata, infatti, che ha dato alla luce una bimba morta, è un percorso di elaborazione del lutto ma anche di ostinata autodeterminazione o, come si direbbe oggi, un esempio di «female empowerment». È la risposta istintiva, e un piccolo atto di ribellione, di una donna che non vuole e non può rassegnarsi. Secondo la tradizione cattolica, la piccola, deceduta prima che potesse ricevere i sacramenti, è intrappolata nel Limbo. Ma qualcuno dice che in un monastero sulle montagne innevate della Carnia fanno i miracoli e i bambini possono essere riportati in vita per il tempo di un respiro, quanto basta per battezzarli e quindi salvarli dal vagare eterno, senza pace, senza nome. La giovane non esita e abbandona di nascosto la sua isola a nordest con il corpicino della figlia dentro a una scatola che trasporta legata alla schiena, in una prosecuzione ideale del rapporto simbiotico madre-figlia.

https://youtu.be/Bt1x9Sbmkik

COME in qualsiasi viaggio non conta tanto la méta, quanto il percorso. Pericoloso, faticoso, a tratti disperato. Ma Agata sembra aver bisogno di attraversare quel dolore fino alla fine, fin nella carne, come a voler trasferire sul proprio corpo la sofferenza dell’anima, quasi questo potesse aiutare a renderla più tollerabile.

NEL SUO ADDENTRARSI nei boschi, luogo metaforico dell’inconscio, la donna incontra la più varia umanità, a volte ostile, altre inaspettatamente generosa, ciascuno e ciascuna con le cicatrici che la vita, la sfortuna, la miseria o il rifiuto gli hanno lasciato addosso. Tra questi Lince (Ondina Quadri, unica attrice professionista nel cast, dopo «Arianna» nuovamente in un ruolo che esce dagli schemi dell’identità binaria), il personaggio più moderno e attuale, una scelta di campo che si rivela audace e sensibile sia sul piano umano che su quello politico. Nei corpi dei non-attori, nella loro espressività sanguigna, in primis Celeste Cescutti, Agata, alla sua prima esperienza sul set, nei territori, nell’uso plurale della lingua (il dialetto veneto e friulano, con molte sfumature intermedie), in questa ricerca di verità, Laura Samani non cerca verosimiglianza a tutti i costi ma mira a raggiungere una dimensione universale che travalichi i confini dello spazio e del tempo con una cifra personale, autentica e originale. Più vicina all’umano che al divino, più pagana che religiosa, comunque mistica, ma di un misticismo laico, terreno, compassionevole e liberatorio.

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