Film arcano, non arcaico, non anacronistico, piuttosto attuale nella misura e nella sostanza del sussistere concreto, del sopravanzare, davanti agli occhi dello spettatore, della materia cinematografica di fondo, come qualcosa che emerga dalle retrovie e si faccia visione cruciale: tutto uno sfondo di luce e superfici, penombre e densità vermicanti, Piccolo corpo di Laura Samani è un raro esempio di realismo magico, che si nutre della natura, di scorci naturali sontuosi e laconici per trascenderne la realtà in qualcosa come un sogno, una morte, cioè uno stato di post-esistenza.Il rigore dello sguardo di Olmi è un’ispirazione come «Pinocchio» di Comencini

VI SI SCORGE la presenza di Olmi, come una segretezza vibrante delle cose, un segreto che viene svelato nel senso della solida impenetrabilità delle cose; poi Pasolini, per quanto la macchina da presa è inquieta e cerca spazio, crea spazio brulicante intorno. Ecco c’è come un incedere razionale, estremamente razionale della macchina da presa, che però deve confrontarsi con una realtà che non vuole essere spiegata, decifrata, se non nella sua coerente refrattarietà o in pochi, brevi momenti di incanto: in quest’ultimo caso, un’aura poetica che si solleva dalle cose polverose, dai loro contorni; un che di sognante nell’oblio acquatico, nel limbo del lago, un che di morente.
Fatto sta che non è comune trovare film del genere in giro, un film di equilibri sottili tra visibile e invisibile, tra forze sottese e forme fatte, realtà e soprarealtà: sarà anche per questo che Piccolo Corpo circola ancora nelle sale e nelle arene estive dimostrando la longevità di certo cinema italiano indipendente, anche rispetto alle predilezioni del pubblico. In questo caso la produzione è di Nefertiti, vale a dire Nadia Trevisan e Alberto Fasulo, il quale come regista ha già mostrato un talento limpido, lampante: Tir e Menocchio sono due chiari esempi di cinema di spessore (e cinema di spessori, volumi pure corrosi da condizioni di luce) non solo nel panorama italiano, e ciò proprio dal punto di vista teorico, quella mistione tra documentale e finzione che è sempre motivo di dialettica, di progressione anarchica dell’immagine, ecco Deleuze direbbe rizomatica, quando il cinema dà l’impressione – e forse è proprio così – di aver preso il sopravvento sul regista, sul soggetto, con giubilo di Lacan.

Laura Samani sarà a Bari stasera col suo Piccolo corpo, per la conclusione dell’undicesima edizione di «Registi fuori dagli scheRmi», occasione per approfondire le molte tematiche (e le forme) suggerite da questo film: la forza della fede, il fascino che vi emana proprio nelle sue rigidità, nelle sue incongruenze; la dimensione del profano che si va a intrecciare con il religioso; il viaggio come sacrificio di sé; la possibilità di un’altra forma di maternità; ma soprattutto l’esigenza, l’ossessione di dare un nome alle cose, di poter nominare un bambino morto, saperlo fuori dal limbo, dall’inesistenza, dal non essere mai esistito. Ma non è solo la vicenda in sé ad avere senso, una madre, Agata, che vuole salvare suo figlio e per questo motivo intraprende un viaggio verso nord, verso la Val Dolais, alla ricerca di una chiesa in cui si dice accada un particolare prodigio: la vicenda di una favola (rivisitata), in cui ci sono boschi e pance del monte cetaceo in cui perdersi; incontri che insidiano, sviano il cammino; compagni di viaggio dai nomi di animali, Lince (diretta discendente del Gatto e della Volpe); e la metamorfosi, l’opportunità di essere altro, anche madre, sia pure per un istante.

NON È SOLO questo, ma il portato metaforico e teorico di questo viaggio, che si rivolge al presupposto poetico, all’incedere stesso di questo cinema, alla scoperta che, passo dopo passo, la macchina da presa fa di sé, del tipo di sguardo che getta sulle cose, della propria ottica. Ecco, questa tensione verso la possibilità di nominare le cose è l’opzione «magica» che si offre a ogni realismo e che ad esempio in Italia, oltre a Olmi (che mi pare il modello più prossimo a Piccolo corpo: il rigore dello sguardo sulla nudità e ruvidità delle cose), è stata coronata da Comencini, dal suo Pinocchio che del resto interpretava magnificamente l’archetipo di Collodi nato proprio nell’ambito di quel viraggio regionalistico del Verismo (da Matilde Serao a Grazia Deledda, passando per De Amicis e Collodi appunto) che significava l’aggiunta di una connotazione personale allo sguardo impersonale, obiettivo del Verismo.
Si tratta della possibilità di penetrare la dura e spessa cute delle cose, di smuoverne la sostanza compatta in modo tale che, così scossa, emani – sia pure per un momento, il momento di un’apnea, il momento di un sogno – un odore e una luce fuori dai propri contorni, un primo e ultimo respiro prima di tornare al «qui e ora» del mondo.