Croazia-Italia finisce 1-1, la squadra del commissario Luciano Spalletti passa agli ottavi e lo fa mettendo un piede in cabina mentre le porte dell’ascensore si stanno chiudendo.

Lo fa con un gran gol di Mattia Zaccagni, entrato troppo tardi, che alla fine piange pure lui. Lo fa il gol del pari quando mancano altri 30 secondi 30 alla fine dell’ottavo minuto di recupero, tempo necessario per riprendersi lo spazio strappato al gioco dal Var che ha consegnato il rigore fallito dalla Croazia e per permettere ai giocatori tutti di ripulire il campo dai bicchieri di plastica lanciati dagli spalti dai tifosi croati, gonfi di birra già all’alba.

L’Italia ora è euforica, ma resta confusa, anche quella del pallone. Il commissario Spalletti però alla fine vuol vedere un altro bicchiere, quello dell’entusiasmo, mezzo pieno. Dice: “Ancora qualcosina da migliorare c’è, ma siamo agli Ottavi”. Mah, vero, quanto necessariamente superficiale.

Sabato gli azzurri se la vedranno a Berlino contro la Svizzera, una delle autentiche sorprese viste fin qui, capace di concedere il pari alla Germania padrona di casa solo nel recupero.

Piange la Croazia, seconda ai Mondiali in Russia, terza nell’ultima assurda edizione giocata in Qatar, squadra che non ha più il talento antico, che ha in un terzino sinistro il suo uomo migliore (Gvardiol) e con l’intramontabile Luka Modric uno di quei fari che incroci dalle parti della sua Zara. Il Novecento è stato il secolo del pallone, un gioco di squadra che è stato anche gioco politico, dove questo Paese uscito dalla digradazione e dalla guerra ha trovato su un campo la sua identità, prima che in ogni altro luogo, in ogni altro contesto.

“Il mio nome è Luka” dice Modric mentre piange sdraiato sotto i suoi tifosi dall’entusiasmo barbaro, arrivati a Lipsia in almeno venticinquemila, un mare infinito rispetto ai diecimila tiepidi italiani. Piange Modric che ha 38 anni e 30 secondi prima del gol del vantaggio si era fatto parare un sacrosanto rigore dal guantone benedetto di Gigio Donnarumma. Trenta secondi trenta per riscrivere la storia, per fare un gol che sembra certezza di qualificazione. Trenta secondi trenta alla fine della notte e tutto si rovescia.

Non ha funzionato un granché, nell’Italia dal coraggio sempre precario: il commissario tecnico Luciano Spalletti decide di non correre rischi, mette un muro di cinque uomini a difesa della porta di Donnarumma, inserisce Darmian, mette un centrocampo a tre con Jorginho in mezzo e Barella e Pellegrini ai lati che stanno così arretrati da scatenare le ire del commissario azzurro per l’intero primo tempo.

Davanti, nel tempaccio autunnale di Lipsia, sono stati messi stavolta Raspadori e Retegui, così volenterosi e tanto mal serviti che dopo una ventina di minuti sprizzano sudore come chi si è scolato cinque birre gelate sulla spiaggia di Ferragosto.

Non servirà la corsa, basterà un’azione una fatta come dice il manuale, quando in campo l’Italia ha spedito pure Nicolò Fagioli, uno che ha appena scontato una squalifica di sette mesi per il caso scommesse. Non un gran biglietto da visita, non una grande squadra, forse anche perché troppi di questi ragazzini hanno sempre raccontato di avere appeso in camera i poster di Luka, Modric, l’intramontabile in lacrime.

Non che sia sbagliato, il problema è un altro: non basta un poster per assorbire le qualità, tecniche e umane, del tuo campione preferito.

Amen, in fondo nel calcio quel che conta è andare avanti. E quel che basta agli italiani per scendere in piazza è una vittoria contro una leggera Albania e un brutto pareggio contro la Croazia. Sono i caroselli di un’Italia confusa, anche in campo.