Picasso, ribellione allucinatoria con i tableaux magiques
A Parigi, Musée Picasso, "Picasso. Tableaux magiques", a cura di Émilie Bouvard, Marilyn McCully, Michael Reaburn Fine anni venti: Picasso dipinge 152 «quadri magici», dove riscopre l’arte "nègre" per radicalizzare lo scontro dialettico con la realtà. Come insegna Carl Einstein...
A Parigi, Musée Picasso, "Picasso. Tableaux magiques", a cura di Émilie Bouvard, Marilyn McCully, Michael Reaburn Fine anni venti: Picasso dipinge 152 «quadri magici», dove riscopre l’arte "nègre" per radicalizzare lo scontro dialettico con la realtà. Come insegna Carl Einstein...
In Picasso l’arte africana non fu soltanto un repertorio di suggerimenti formali e operativi, ma anche, e più, la chiave per liberare il quadro dalla sua secolare dipendenza dalla realtà, così da imporlo in totale autonomia, organismo autoconcluso, oggetto. Niente di più lontano dall’idea di mimesi, del feticcio nègre, concepito come interfaccia del Divino e dunque strutturato secondo principî – plastici – che lo alienano dal mondo fenomenico. Fu Picasso a cogliere nella sua pienezza questo significato, più di Vlaminck e di Derain, e di Matisse, ai quali si attribuisce in genere la primazia nella scoperta dell’arte dell’Africa nera. Fu lui, anche, a staccare le qualità specifiche di quest’arte entro il generico culto del ‘primitivo’ che si era affermato, creando non pochi equivoci, a partire da Gauguin: nella scultura africana il senso dello spazio è inderogabile, a differenza di quella oceanica, in genere più piatta e decorativa (i legni intagliati del Pacifico, p.e., seducono e insieme limitano l’arte dei giovani della Brücke, costola dell’espressionismo tedesco).
1907, visita al musée Trocadero
È fin troppo nota la dichiarazione di Picasso, riportata dalla compagna Françoise Gilot, a proposito della visita del 1907 al museo etnografico Trocadero: «(La pittura) non è un processo estetico; è una forma di magia che s’interpone fra l’universo ostile e noi…». Ma non è nel suo «periodo negro» (compiuto, proprio nel 1907, con le Demoiselles d’Avignon), né nelle diverse fasi del cubismo d’anteguerra, che l’opera di Picasso incorpora radicalmente l’assunto concettuale africano. È in un gruppo di quadri realizzati fra l’estate del 1926, trascorsa a Juan-les-Pins, e i primi mesi del 1930 (l’atelier parigino di Picasso era a quest’epoca in rue La Boétie). Il critico Christian Zervos, editore dei «Cahiers d’Art» e autore del monumentale catalogo ragionato delle opere dell’artista (1932-’78), li classificò nel 1938 come «tableaux magiques»: «Les irradiations qui émanent de ses images nous rèvélent le pouvoir magiques des signes». Quasi tutte tele, qualche tavola, si tratta di 152 opere di varia misura; sarebbero state di più senza il disgraziato e comico incidente (di cui sappiamo da una lettera di Clive Bell) nel quale incorse Picasso proprio nel ’26, di ritorno a Parigi dalla Costa Azzurra: i quadri sistemati sul tetto dell’automobile volarono via…
Il potere magico dei segni: dopo il momento «dinamico» rappresentato canonicamente dai Trois danseurs, che è del 1925, Picasso sente il bisogno prepotente di riassestarsi entro forme più statiche ed equilibrate. Ma questo nuovo ordine – prima lineare, poi plastico – non è che una maschera entro cui si agitano le larve di un inconscio ‘in guerra’. Sotto questa pressione, Picasso evita il rischio di naufragare nel soggettivismo attraverso l’elaborazione di strutture portanti che proiettano la sua opera in un’impersonalità categorica. A questa fase succederanno, negli anni trenta prima di Guernica, i profili falcati e flessuosi concepiti nell’atelier normanno di Boisgeloup, produzione a cui il museo di Rouen ha dedicato, tre anni fa, una mostra indimenticabile (cfr. «Alias-D», 8 giugno 2017). Qui l’arabesco non rappresenta un allentamento del rigore formale, ma semplicemente un accento più sognante.
Nel 1924, ricordiamolo, Breton aveva dato alle stampe il primo manifesto surrealista, ma Picasso, pur interessato alla nuova corrente, che del resto non nascondeva i suoi debiti verso di lui, resta totalmente estraneo alla sua cerebralità metafisico-letteraria. Gli contende il terreno, però: con una forza di persuasione visionaria che sbaraglia il campo. Realizzato come se fosse un taccuino di schizzi, rappresentante soprattutto teste e corpi sottoposti a fantastiche torsioni immaginative, il gruppo dei tableaux magiques è il campo entro il quale risulta meglio verificabile la nuova trasformazione del Malaguegno. Una parte è concepita in piccole serie: Le peintre et son modèle, dormeuses, chitarre, arlecchini, femmes nella poltrona rossa, L’Atelier…
I mercanti delle arti lontane
A questo capitolo picassiano, non fra i più conosciuti, il Musée Picasso di Parigi dedica, ancora fino al 25 febbraio, una mostra curata da Émilie Bouvard, Marilyn McCully, Michael Reaburn. Il catalogo, edito esemplarmente da Silvana Editoriale (euro 39,00), riproduce l’intero corpus in questione, con l’accortezza di distinguere a piena pagina le opere esposte (a parte quelle di casa, provenienti da ogni parte del mondo) e in formato minore, ma scalate secondo le misure originali, le altre. McCully e Reaburn, nel testo di catalogo, mettono a fuoco la relazione dell’insieme con opere più o meno coeve, fra cui: la scenografia del balletto Mercure, 1924; una tela importante come Le Baiser, 1925; i ripetuti «fallimenti» nell’ideazione del monumento funerario in memoria dell’amico Apollinaire, fallimenti in parte sovrapponibili con le nuove esperienze nell’ambito della scultura, che comprendono anche l’inizio della collaborazione con il catalano «in ferro» Julio Gonzáles. Ricordiamo che in questi anni, attraverso la seconda generazione di mercanti di arte extra-europea (Carré, Level, Loeb, Ratton), Picasso rinnova il suo interesse a possedere oggetti tribali, africani ma anche oceanici: non è un collezionista, li utilizza come motore di ricerca. La mostra offre una breve selezione di questi oggetti, da una maschera mukuyi, etnia Punu, del Gabon, a una testa d’Oba, metallurgia dell’antico regno del Benin.
Catalogati più tardi da Zervos, i «quadri magici» acquistano… in magia se letti con l’ausilio dei testi a caldo di Carl Einstein, lo scrittore e critico ‘cubista’ (e comunista) che si era rivelato, nel 1915, con il veloce saggio sull’arte africana Negerplastik, uscito a Lipsia. Lì l’analisi di Einstein, maturata nella temperie ardimentosa del cubismo delle origini, a contatto diretto con i pittori cui lo aveva introdotto l’amico e connazionale Kahnweiler, aggrediva, nel modo feroce ed ellittico proprio alla sua prosa, le strutture formali. Individuando e descrivendo la «concezione spaziale cubica» delle manifatture negre, egli aveva chiarito la concordanza con l’arte dei cubisti, concordanza che era rimasta fin allora nell’indeterminato.
Nella seconda metà degli anni venti, la stagione che qui ci interessa, Einstein è giunto a maturare una posizione meno ‘formalista’ e più etnologica, come è chiaro dai saggi pubblicati nella rivista «Documents», da lui ideata insieme a tre Georges: Bataille, Rivière, Wildenstein. Uscita a Parigi anche come risposta polemica al diktat surrealista di Breton, «Documents» fu pubblicazione di vita breve (il biennio 1929-’30), ma cruciale nel dare nuova linfa teorica ai discorsi sull’arte del presente (si pensi all’Informe di Bataille). Per la parte firmata Einstein ne abbiamo, dal 2015, un’edizione italiana (Mimesis), a cura di Fiorella Bassani e Matteo Spadoni.
Nei nuovi scritti africani, in particolare A propos de l’Exposition de la Galerie Pigalle, Einstein indica l’esigenza di guadagnare un punto di vista storico, comparato, contestuale. Non per caso sono gli anni in cui emerge la figura singolarissima di Michel Leiris, impegnato anche lui in «Documents» prima della spedizione etnografica Dakar-Djibouti, che darà il suo frutto, nel ’34, con L’Afrique fantôme, dove l’altrove si muta in confessione. E anche Leiris, presto amico intimo di Picasso, sente il bisogno di esprimersi, proprio su «Documents», circa i suoi lavori recenti, e, in polemica implicita con Breton, ne sottolinea il possente «realismo», quasi a riecheggiare il «sur-realismo», realismo potenziato, formulato da Apollinaire: niente di più lontano da Picasso che il «voler “fare” inquietante» o «mostruoso».
Dalla monografia su Braque
Einstein: la sua nuova adesione culturale ai feticci negri, osservati nei miti di riferimento e nelle funzioni rituali e simboliche (palo fallico, cranio, scheletro, figure accovacciate, statue ermafrodite, tutto riconduce al principio generativo), coincide con una riconsiderazione ‘etnologica’ dell’arte presente. Dalla monografia su Braque, 1934: «Bisogna tentare una sociologia o un’etnologia dell’arte, in cui l’opera non verrebbe più considerata un fine in sé, bensì un mezzo vivente e magico. A queste condizioni, le immagini ritroveranno il loro significato di energie vitali e attive». Tutti i saggi contemporaneisti di Einstein per «Documents» – oggetti (oltre a Picasso), Braque, Gris, Léger, ma anche la «generazione romantica» degli unici surrealisti per lui digeribili: Arp, Masson, Mirò – sono intrisi di questo sguardo straniante, teso a offrire le coordinate per intendere l’opera d’arte – laddove si ponga all’altezza di questi requisiti – come catastrofe del reale e generatrice di nuova realtà.
È negli scritti su Picasso, in particolare nell’ampia porzione a lui dedicata in quella specie di scheggia in fiamme della Storia dell’Arte Moderna che è Die Kunst des 20. Jahrhunderts (1926, edizione definitiva 1931), che Einstein sperimenta nel modo più persuasivo il nuovo approccio. Con la sua scrittura spezzata, veemente, percussiva, a tratti oscura, egli è il primo a evidenziare – con sotto gli occhi proprio la produzione dei secondi anni venti – l’allegria dissolutoria di Picasso, la sua pulsione ad annientare la ripetitività del reale attraverso una dinamica da lui definita «allucinatoria». Il quadro non è più ricettacolo di una realtà mediata: attinge direttamente dal reale, cioè dal subbuglio inconscio che esprime il reale senza mediazioni estetiche («intervallo allucinatorio»). Ora, sostiene Einstein, il tuffo nell’inconscio implica una carica deflagrante che mette a rischio l’integrità dell’opera: deve essere padroneggiato. Masson lo fa creando «un equivalente alla velocità dei processi psicologici»: psicogramma. Si mimetizza con la sparpagliata frammentarietà degli elementi inconsci: nella «fretta» della figurazione deve rinunciare alla struttura spaziale, è la superficie piana che viene incontro al «procedimento estatico».
Picasso, tutto al contrario, fornisce una risposta «tettonica», attraverso un sovrano coordinamento dei diversi assi visivi e sezioni spaziali: «Possiamo vedere una disciplina dell’allucinazione: il flusso dei processi psicologici è per così dire respinto dalla diga statica delle forme», che assumono, nella tensione di questo contrasto, «forza di legge». Dinanzi agli occhi i tableaux magiques, difficile distrarsi dalla formula di Einstein «tettonica allucinatoria». Risulta ben chiaro il nesso stringente, organico, anzi l’identificazione fra processo figurale e processo formale, ciò che rende così distanti le costruzioni antropomorfe di Picasso, le sue brutali e stregate metamorfosi, dalla coeve fantasie – ‘poggiate’ sul piano come un racconto – dei surrealisti.
Per il Picasso della seconda metà degli anni venti Einstein usa il termine «realismo mitico»: lo giudica un culmine. Nell’Arte del ventesimo secolo mette in prospettiva temporale l’intera produzione dell’artista: dopo «l’epoca eroica, l’epoca dell’autonomia creatrice», si impone, poco a poco, la simultaneità multipla, in cui l’«atto visivo venne scomposto (…) seguendo assi multiple»; succede poi un momento in cui il linguaggio formale si fa «più violento»: inizia «il ciclo delle immagini tettoniche, di libera concezione, con le quali più avanti, lontano da ogni estetismo», Picasso «avrebbe sviluppato le forme mitologiche». E siamo al presente in cui Einstein scrive. Poté verificare questo sviluppo in modo palmare nel 1932, partecipando all’allestimento dell’importante retrospettiva di Picasso da Georges Petit.
Ebreo tedesco di Neuwied (n. 1885), formazione purovisibilista nel segno di Fiedler, interessato alla psicoanalisi (Jung più che Freud), marxista eretico, intellettuale della Rivolta, irriconciliato, «invasato», Einstein concepisce l’opera cubista in chiave dissociatoria. Essa risponde a uno scontro dialettico di forze, in quanto brusca resezione dall’ordine sequenziale: essa ‘uccide’, insieme alla rappresentazione, le sequenze temporale e causale. Si isola, come un oggetto magico. Georges Didi-Huberman ha collegato questa lettura al concetto di «immagine dialettica» di Benjamin – Benjamin, che come Einstein si suicidò alla frontiera franco-spagnola, in fuga dal nazismo. Ma Einstein, sostiene Didi-Huberman, si spinge oltre: poiché nel quadro cubista non vede soltanto, con Benjamin, una «dialettica nell’immobilità» o un «lampo che forma una costellazione», ma anche e soprattutto (sua l’immagine) «un campo di forme», egli dà modo di sviluppare, secondo il critico francese, «la nozione di una vera e propria energetica dell’esperienza visiva».
Arcangeli e Gertrude Stein, equivoci
Energetica che spiega il quadro in quanto, appunto, oggetto magico, alla stessa stregua delle maschere africane, indossate per identificarsi con l’avo persecutore e ‘disattivarlo’. Qui si tratta di disattivare la fatalità del pregiudizio metafisico, su cui si fonda la reiterazione anòdina della realtà e delle maniere di rappresentarla. Per Einstein Picasso, in questa ‘lotta’, è il campione: «Senza la minima riserva, (…) si proietta insieme alle sue esperienze. La maggior parte dei pittori della sua generazione, dopo una fase considerevole di libertà, si sono sentiti in colpa nei confronti della natura: hanno cercato allora un termine di comparazione tra la realtà immediata e la realtà convenzionale. Picasso, al contrario, ha accentuato l’opposizione dialettica dell’uomo e della realtà morta».
Bisogna leggere Einstein per capire qualcosa dell’attitudine di Picasso al rinnovarsi ossessivo, che ha dato luogo a tante incomprensioni. Francesco Arcangeli ha parlato di «voce recitante», mentre Gertrude Stein, nel suo profilo del 1938, vi aveva visto una sorta di metabolismo pendolare – «svuotarsi» e di nuovo «riempirsi», senza requie – spiegabile con il bollore del sangue spagnolo. Il dialettico Einstein non fa mai cenno alle origini spagnole di Picasso. Per lui si tratta innanzitutto di un capitolo fra i più significativi del conflitto fra la viva realtà e le sue devianti proiezioni, quella «fabbricazione di finzioni» di cui dice in uno scritto del 1933, non pubblicato: e questo conflitto nell’Europa insanguinata degli anni venti e trenta implicava una decisa scelta di campo. Dal fronte della Guerra di Spagna – si è arruolato con Buenaventura Durruti, l’uomo «che aveva bandito dalla grammatica la parola “io”, questo termine preistorico» – Einstein non dimentica di chiedere a Kahnweiler: «Picasso e Braque, come hanno lavorato? Raccolga per me qualche foto o delle riproduzioni». È il 1938, un anno prima c’è stata Guernica, esito grandioso della ribellione allucinatoria avviatasi con i tableaux magiques.
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