Picasso, la dannazione dello spagnolo tedesco
A Milano, Palazzo Reale, "Picasso lo straniero", a cura di Annie Cohen-Solal Nata dalle ricerche della studiosa negli archivi polizieschi e giudiziari, la mostra evidenzia il rifiuto xenofobo della Francia verso un artista sentito come minaccia, anche per i suoi legami tedeschi (Uhde, Kahnweiler)
A Milano, Palazzo Reale, "Picasso lo straniero", a cura di Annie Cohen-Solal Nata dalle ricerche della studiosa negli archivi polizieschi e giudiziari, la mostra evidenzia il rifiuto xenofobo della Francia verso un artista sentito come minaccia, anche per i suoi legami tedeschi (Uhde, Kahnweiler)
Nel 1947 Pablo Picasso aveva 66 anni, da 43 viveva stabilmente in Francia ed era artista ormai consacrato in tutto il mondo. Eppure a quella data nelle raccolte museali transalpine erano presenti solo due sue opere: il Portrait de Gustave Coquiot, dipinto giovanile del 1901, al Jeu de Paume, e la stupenda Femme lisant, donata dall’artista al museo di Grenoble. Su una Natura morta del 1921, che lo stesso Jeu de Paume avrebbe voluto acquisire, si era acceso un contenzioso con Picasso stesso. «Non è un’opera degna di rappresentarmi. Che ne comprino un’altra», aveva protestato l’artista. Così l’acquisizione era saltata. Nel frattempo, nel 1937, Les demoiselles d’Avignon, opera caposaldo del 1907, dopo essere stata rifiutata dal Louvre nel 1929, era entrata trionfalmente al MoMA di New York.
Nel 1947 la situazione sarebbe finalmente cambiata grazie all’arrivo di Jean Cassou alla direzione del Musée national d’art moderne parigino: di fronte al desiderio del nuovo direttore di colmare il clamoroso buco, Picasso, da buon tattico, si mostrò generoso, donando dieci importanti opere.
Perché per quasi mezzo secolo la Francia ha mostrato un ostinato ostracismo nei confronti di Picasso? È questo il tema della mostra di Milano, Palazzo Reale, curata da Annie Cohen-Solal, studiosa e storica, autrice tra l’altro delle biografie di Leo Castelli e di Jean-Paul Sartre: Picasso lo straniero, fino al 2 febbraio 2025, catalogo Marsilio Arte. La mostra, di taglio intelligentemente narrativo, è il frutto delle ricerche realizzate dalla Cohen-Solal per scrivere Picasso l’étranger, tradotto in Italia sempre da Marsilio (Picasso. Una vita da straniero), libro che ha portato allo scoperto molte novità sulla vita dell’artista.
Quella di Milano è la terza tappa di questo progetto espositivo. La prima era stata significativamente ospitata negli spazi del Musée national de l’histoire de l’immigration, il che fa capire come i problemi con cui dovette fare i conti Picasso in quella prima metà del secolo, culminati con la risposta negativa alla richiesta di naturalizzazione nel 1940, fossero quelli di un migrante in un paese attraversato da venti xenofobi.
Ma i problemi non erano solo quelli. Picasso per decenni in Francia è stato recepito come un barbaro, del tutto estraneo alla cultura autoctona, e quindi da ignorare o isolare. Per capire quale voragine si fosse aperta tra lui e la cultura ufficiale, ispirata dall’onnipotente Académie royal de peinture et sculpture, basti pensare che, mentre nel 1907 dipingeva le Demoiselles sulla Butte, sull’altra sponda della Senna, all’École des Beaux Arts, agli studenti che si candidavano per il Prix de Rome, gestito dall’Académie, veniva chiesto di lavorare sul tema Virgilio che contempla una scena agreste…
Le Demoiselles spalancavano a Picasso la strada verso il cubismo, e proprio il cubismo era stato vissuto come qualcosa di inaccettabile, una violazione dei tradizionali canoni estetici francesi, da combattere e mettere nel cono d’ombra. Con una storpiatura ortografica, il critico Louis Vauxcelles lo aveva rinominato Kubism, in quanto una delle principali imputazioni rivolte a Picasso era quella di essersi venduto a modelli formali tedeschi: la storpiatura ammiccava ironicamente alla K della marca di dadi da brodo tedesca KUB. A Picasso veniva imputato anche il rapporto con Daniel-Henri Kahnweiler, il giovane mercante tedesco che nel 1907 aveva aperto una piccola galleria a Parigi, in Rue Vignon, esponendo, tra gli altri, Picasso, Braque e Derain. Ma, come scrive Cohen-Solal nel testo introduttivo al catalogo, «l’intera colonia tedesca di Parigi, sensibile al giudizio di Wilhem Uhde e Julius Meier-Graefe e all’operato di Kahnweiler, s’interessa per prima a Picasso cubista».
Nel 1914 la guerra avrebbe precipitato le cose, trasformando Kahnweiler in una persona doppiamente nemica. È del 13 ottobre di quell’anno una circolare che ordinava il sequestro dei beni di imprese tedesche in territorio francese. Dal deposito della galleria di Kahnweiler vennero portate via oltre settecento opere, destinate a finire all’asta qualche anno dopo, tra 1921 e 1924. Quelle aste, paradossalmente, sarebbero state la prima mostra cubista fatta a Parigi. Ovviamente lo stato, che ne aveva diritto, non esercitò nessun diritto di prelazione.
È ancora una volta un tedesco, il gallerista Heinrich Tannhauser, che nel 1914 aveva acquistato all’asta a Parigi uno dei grandi quadri di Picasso del primo decennio del secolo, Famille des saltimbanques, del 1905, proprietà di André Level, tra i pochi collezionisti in Francia a essersi accorti del Malagueño. Ed è sempre tedesca la successiva storia collezionistica del grande quadro: su suggerimento pressante di Rainer Maria Rilke, era stato comperato da una sua amica poetessa, Herta Koenig. L’arrivo nella casa di Monaco della nuova proprietaria è descritto da Rilke come una sorta di epifania: «Ebbi l’impressione che i personaggi fossero immersi nell’acqua… e li sentii tanto vicini da non poterli lasciare andar via». A queste parole seguirono anche i fatti: Rilke, nell’estate 1915, chiese e ottenne di poter vivere nella casa di Herta Koenig, «vicino al grande Picasso», per oltre quattro mesi.
Il quadro, che in mostra non è potuto arrivare perché per vincolo del donatore non può muoversi dal museo di Washington, è rivelatore anche sotto il profilo sociologico. I saltimbanchi, attori di circo, rappresentavano un campionario umano ben conosciuto da Picasso in quanto vicini di casa costretti a vivere in situazioni miserabili, in case-baracche, nello stesso Bateau-Lavoir, sulla collina di Montmartre, in cui il pittore aveva il suo atelier: l’aggiunta «lavoir» era stato coniata da Max Jacob con una punta di ironia, a sottolineare la presenza di una sola presa d’acqua usata dai 25 nuclei che abitavano l’edificio.
L’impatto con Parigi era stato durissimo per Picasso, l’«anarchico» secondo la definizione con cui era stato schedato in occasione del suo primo viaggio nella capitale francese nel 1900. L’anno successivo aveva dovuto fare i conti con la scomparsa dell’amico pittore Carlos Casagemas, suicidatosi per amore di Germaine Pichot, la modella che ritroviamo nel quadro con i saltimbanchi, e che avrebbe posato anche per le Demoiselles: il celebre dipinto con il volto dell’amico morto, incendiato di colori, è posto all’inizio del percorso della mostra.
Nonostante tutte queste traversie parigine, Picasso solo in tre occasioni sarebbe tornato a Barcellona, più che altro per trovare sua madre Maria che gli era restata sempre legatissima, come dimostrano le centinaia di lettere da lei scritte nell’arco di quarant’anni. Oggi sono conservate al Musée Picasso parigino e fanno parte dell’enorme patrimonio acquisito dallo stato francese alla morte dell’artista, grazie alla «dazione in pagamento» che permese di convertire in donazione di opere le tasse che gli eredi avrebbero dovuto pagare. A quel punto la francesizzazione di Picasso era finalmente, seppure tardivamente, un fatto compiuto: proprio qui si chiude il percorso di una mostra scaturita da nuove ricerche che hanno permesso uno sguardo diverso e non canonico.
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