L’odore di un lenzuolo o di un vestito o lo strofinaccio a righe che qualcuno usava per asciugare i piatti. Certe albicocche dell’albero nel giardino in casa dei nonni, lo stacco pubblicitario dopo il telegiornale, un vecchio zio che fumava seduto in poltrona, il suono dei grilli la notte, la nascita dei gemelli o la morte di qualcuno.

Qualunque forma abbia avuto la famiglia delle persone, e comunque sia andata, i ricordi che restano impressi trovano un sostegno potente nelle fotografie, un tempo raccolte in album (in un tempo ancora più antico con piccole frasi scritte a mano come «Luisa al mare, sei anni, Rapallo, agosto ’66»). E negli album ricorrevano molto i ritratti di gruppo, che di anno in anno mostravano il passare del tempo, i pranzi, i compleanni e le recite scolastiche con chi c’era ma anche facendo sentire la mancanza di chi non c’era più.

A questa pratica intima e privata e alle sue infinite declinazioni nel tempo, nello spazio e nella tipologia (che per fortuna non è necessariamente quella dei legami di sangue), è dedicata Say cheese! Un nuovo ritratto di famiglia una delle mostre di You can call it love, la nuova edizione di Photolux Festival – Biennale Internazionale di Fotografia di Lucca (fino al 12 giugno). La ricerca di una nuova forma con cui raccontare le dinamiche familiari e la storia che è stata, trova spesso una figura narrante al femminile – quella della fotografa – che, per esempio, come nel caso di Trish Morrissey in Front, scova, lungo le spiagge inglesi, piccoli gruppetti familiari accampati con ombrelloni, cani, tende e seggioline e chiede di farne parte giusto per il tempo di uno scatto.

Barriere fisiche e psicologiche verso il non-conosciuto cadono, così di colpo (ogni immagine si chiama con il nome della donna provvisoriamente sostituita) smuovendo ruoli fissi e stereotipati tipici dei legami familiari. Moira Ricci ritrae sé stessa inserendosi in vecchie fotografie della madre (scomparsa a cinquant’anni) – ventenne col fidanzato, trentacinquenne mentre cucina o guida la macchina o ragazza su una moto –, vestita come lei con le camicette anni settanta o la vestaglietta da casa, la guarda avidamente con nostalgia.

«In alcune foto ho le sue scarpe. Ho rovistato fra le sue foto vecchie, mi sono vestita, ho cercato la posizione giusta e mi sono infilata». Il suo viso affilato, sfumato e melanconico, spunta qui e là e sembra annusarla quasi, conoscerla di nuovo in modo diverso, avvisarla di quello che le sarebbe successo.
Kitchen Gods di Priya Suresh Kambli (Mumbai, 1975) nasce dal ritrovamento di alcune stampe di scatti fatti dal padre nelle quali il viso della madre non compare, lei lo ha tagliato via . Kambli si interroga su tale alterazione operandone molte altre su foto antiche di famiglia. Crea reticolati, superfici traforate o piccoli mantelli bianchi usando chicchi di riso, petali bianchi o disponendo farine come mandala intorno ai volti: il mondo femminile indiano che onora le divinità della cucina omaggiando anche i propri avi.

Una famiglia geograficamente dislocata è quella narrata da Rinko Kawauchi (Shiga, 1972): chi vive a Osaka, chi ancora a Shiga e chi a Tokyo ma ci si ritrova tutti e sempre a indossare i kimoni più leggeri, mangiare anguria, lustrare le pietre tombali e accendere lanterne nel settimo mese dell’anno durante l’Obon, quando gli antenati tornano a trovarci e devono quindi essere ben accolti e nutriti. La macchina fotografica può essere un dispositivo per fermare la morte. Masahisa Fukase – con Family – ha ritratto, secondo i canoni classici del Kazoku (ritratto di famiglia) il gruppo di bambini, anziani, uomini e donne in bianco e nero, dal 1971 al 1990: un memento mori che ogni volta include un particolare dissacrante e divertente, avendo in mente però anche le foto classiche fatte dal padre a Bifuke nell’Hokkaido, nel suo piccolo studio fotografico. Autrice di un magnifico ritratto di Joan Didion e soprattutto del fondamentale Southern Rites (anni duemila, Mount Vernon, Georgia, proms separati per teen-agers bianchi e neri) Gillian Laub osserva come, nella sua stessa famiglia idee politiche opposte, convivano a fatica: abbondano i grembiuli col faccione di Trump mentre si affetta il tacchino del ringraziamento, abbondano i gagliardetti, le bandierine e i visoni (indossati) e il trucco pesante sui visi delle donne.

Il mondo Lgbtq è percorso da Sunil Gupta e Sage Sohier: il primo, con Pretended family relationships, documenta le lotte «against the Clause», la nota clausola 28 emanata da Thatcher negli anni ottanta in cui si vietava la promozione ed educazione all’accettazione dell’omosessualità. Sage Sohier inizia a fotografare coppie omosessuali nel 1987, mostrandone la longevità, la tenerezza nell’accudimento degli anziani genitori e la «piatta» routine quotidiana, rompendo cosi la monotonia di una narrazione di vite affettive necessariamente e sempre promiscue. Quelli che si sono conosciuti facendo trekking, quelli che studiavano insieme all’università, due che si sono innamorati in Grecia d’estate e altri due che si sono incontrati per caso davanti ad un teatro perché c’era un biglietto in più per il concerto. Questo però a Odessa, a Chernihiv, a Gorlovka come a Dnipro, a Jaroslavl’ o a Voronez.

Nomi di luoghi che risuonano ormai quotidianamente nelle nostre case e che sono anche i posti in cui, da decenni oppure da pochi anni, si sono formate – fra Russia e Ucraina – le coppie raccontate in Familia (2014 – ongoing) da Oksana Yushko. Ucraina che da sempre vive in Russia, Yushko ha iniziato ritraendo Engelina (russa) e Viktor (ucraino), i suoi genitori in coppia da cinquant’anni dopo l’incontro all’università a Charkiv. Il suo lavoro ha poi incontrato Tatyana, ucraina che ha raggiunto Sergey e vive con lui a Zeya nella regione dell’Amurskaya nell’estremo oriente russo, a seimila chilometri da Chernihiv, e la siberiana Irina che ha raggiunto Bohdan nell’Ucraina dell’ovest, o infine Maxime, kazako nato a Karaganda e Darya, ucraina. Si baciano sul divano, avranno vent’anni e sono bellissimi. La città di Darya – Sumi – a 30 chilometri dal confine russo, è stata lasciata dai russi, devastata, due mesi fa, l’8 aprile del 2022.