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Pfas, in Veneto inquinamento fuori controllo

Pfas, in Veneto inquinamento fuori controllo

Dossier Secondo il Noe e Greenpeace, la società Miteni, la Provincia di Vicenza e l’Arpav avrebbero ignorato per anni la contaminazione delle acque

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 16 maggio 2019

Un incubo che sembra non finire quello dei Pfas, mentre le ombre si allargano e si infiltrano, si stendono dubbi, sospetti e congetture anche laddove si annidavano certezze. Questioni di coscienza, ipotesi di omissioni che al centro di un disastro ambientale diventano occultamento o connivenza. Istituzioni pubbliche ed enti di controllo sembrerebbero ora responsabili, secondo quanto emerge dagli atti di indagine, di aver sottovalutato o taciuto per anni il grave inquinamento che si stava consumando nell’ovest vicentino.

L’ANNOTAZIONE DI POLIZIA GIUDIZIARIA redatta dal Noe di Treviso e visionata da Greenpeace parrebbe evidenziare, infatti, profili di responsabilità non solo a carico della dirigenza Miteni, ma anche della Provincia di Vicenza e dell’Arpav che, stando al rapporto stilato dall’associazione ambientalista, avrebbero ignorato per anni le notizie e le avvisaglie della contaminazione in atto, permettendo così l’estensione incontrollata dell’avvelenamento. Affermazioni, queste, che sono particolarmente importanti e che sarà necessario verificare nelle sedi opportune giacché alla sbarra non è più la criminalità del profitto o la negligenza della politica, ma l’operato di enti di controllo che dovrebbero fungere da garanzia e il cui coinvolgimento nel caso sarebbe lesivo nei confronti della collettività. Sono molti, tuttavia, i nodi ancora da sciogliere.

QUANDO FU COSTRUITA LA BARRIERA idraulica per il contenimento degli inquinanti? Nel 2005, come dichiara il Noe, o nel 2013 come ha sempre sostenuto Miteni e come ha affermato Arpav in documenti ufficiali? E cosa vide veramente Arpav tra il 2005 e il 2013 nello stabilimento chimico? Più di un elemento smentirebbe la tesi dell’azienda e dell’agenzia regionale e indurrebbe a pensare, invece, che la barriera idraulica sia stata costruita proprio nel 2005. A riprova di ciò c’è innanzitutto la consulenza che Miteni commissionò a Erm nel 2004, a seguito della quale veniva raccomandato di provvedere al più presto all’avvio di un sistema di contenimento idraulico per impedire la migrazione a valle dei contaminanti disciolti. Ma c’è soprattutto il bilancio 2009 di Miteni Spa, nel quale si fa riferimento all’implementazione della barriera idraulica, «secondo i programmi concordati con le autorità locali», al fine di «incrementare la barriera idraulica con l’aggiunta di due nuovi pozzi, in quanto quella realizzata nel 2005 non è sufficiente». Inoltre, la nota del Noe dichiara che già nel gennaio 2006 il personale di Arpav Vicenza operava direttamente sulla barriera idraulica per chiudere e sigillare i contatori dei pozzi collegati alla barriera stessa.

GLI INVESTIGATORI SI SONO SPINTI PERSINO ad affermare che ci sia stata una vera e propria «volontà dei tecnici Arpav di non voler far emergere la situazione». Non negligenza quindi, ma complicità, colpa. Del resto se Arpav avesse denunciato quanto stava accadendo la bonifica sarebbe potuta iniziare già allora arginando, o quanto meno limitando, i danni alla popolazione. Ad aggravare la posizione di Arpav si mettono poi le dichiarazioni del Dr. Sacchetti, che ha lavorato dal 2002 al 2007 in Erm, società di consulenza ambientale che progettò nel 2005 la barriera idraulica per Miteni.

COME SI LEGGE NELLA RELAZIONE DEL NOE, Sacchetti afferma: «Ricordo che nell’ultimo periodo in cui ho lavorato presso Erm Italia ho incontrato probabilmente presso la Miteni l’Ing. Vincenzo Restaino dell’Arpav. Non ricordo nello specifico il colloquio avuto con Restaino, ricordo che il predetto era a conoscenza del problema di contaminazione prodotto dalla Miteni». Da questi dati sembra perciò evidente che l’Arpav fosse chiaramente a conoscenza dello stato di contaminazione e sorprende che non abbia svolto diligentemente il proprio ruolo di controllo, informando chi di dovere e dando avvio ad indagini più approfondite. Non si dimentichi infatti che nel 2011-2012 fu il Cnr ad avvertire il ministero riguardo ai valori anomali registrati nella zona, non l’Arpav. È possibile perciò che l’agenzia regionale, conscia degli sversamenti di Miteni, non si sia mai premurata di campionare l’acqua potabile nell’area? È legittimo porsi alcune domande, anche alla luce del fatto che nel 2010 erano stati resi noti a Provincia e Arpav gli studi condotti nell’ambito del Progetto Giada, finanziato con fondi comunitari e coordinato dall’Ufficio Ambiente della Provincia di Vicenza, che avevano riscontrato un incremento della contaminazione da Btf dovuta alla attività dell’azienda. Il Noe di Treviso conclude che «la Provincia di Vicenza, oltre a non condividere il documento conclusivo del Progetto Giada con gli altri enti, avrebbe dovuto richiedere espressamente ad Arpav una verifica approfondita dello stabilimento Miteni e che allo stesso modo, l’Arpav, nonostante fosse a conoscenza degli esiti del Progetto Giada, inspiegabilmente non ha immediatamente avviato una verifica approfondita e mirata dello stabilimento».

Il ruolo degli enti regionali e provinciali, dunque, necessita di essere approfondito, e preoccupa che nel processo in corso non siano indagate le posizioni dei tecnici Arpav e dei funzionari pubblici implicati nella vicenda. Particolarmente allarmante poi, come ha giustamente sottolineato Vincenzo Cordiano (medico Isde che da anni si occupa della vicenda), è la presenza in Arpav di un dirigente precedentemente impiegato presso Miteni il cui ruolo nella gestione del problema Pfas dovrà essere necessariamente chiarito per fugare ogni pernicioso sospetto di conflitto d’interessi. Nella rete di omissioni ed errori, dove imperizia e colpa si amalgamano, si sono determinati i presupposti per l’inquinamento di falda più vasto d’Europa. Intanto il caso sembra estendersi: è notizia recente il riscontro della presenza di Pfas nella zona di Thiene, nell’alto Vicentino, e persino nel Po, tra Lombardia ed Emilia. La scoperta, che ha allarmato la popolazione dei comuni interessati, ha gettato nuovi timori sulla qualità delle acque e del suolo nel nord Italia, delineando la possibilità che l’inquinamento non sia circoscritto a un area continua e limitata, ma che possa interessare una pluralità di micrositi, presso discariche e centri industriali, in territori finora mai sottoposti a controlli mirati.

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