Petroliere sabotate, Abu Dhabi accusa l’Iran senza nominarlo
Golfo Gli Emirati hanno consegnato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un rapporto in cui si parla di un «attore statale» alla base dell’attacco del 12 maggio contro quattro petroliere nei pressi dello Stretto di Hormuz
Golfo Gli Emirati hanno consegnato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un rapporto in cui si parla di un «attore statale» alla base dell’attacco del 12 maggio contro quattro petroliere nei pressi dello Stretto di Hormuz
Gli Emirati «non vogliono assistere a una guerra che l’intera regione pagherebbe a caro prezzo» ma chiedono all’Iran di «cambiare comportamento». Queste parole pronunciate dal ministro degli esteri emiratino, Anwar Gargash, in un’intervista a The National, non sono un segnale di moderazione. Confermano che i venti di guerra spirano impetuosi nel Golfo e che l’opzione di un attacco militare contro Tehran da parte degli Usa e degli alleati nella regione è molto concreta. Parole pronunciate nelle stesse ore in cui Abu Dhabi consegnava al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un rapporto in cui si parla di un «attore statale» (l’Iran?) alla base dell’«operazione complessa e coordinata» che lo scorso 12 maggio ha sabotato quattro petroliere nei pressi dello Stretto di Hormuz in acque territoriali degli Emirati: due saudite, una emiratina e una norvegese.
L’indagine, condotta insieme ad Arabia Saudita e Norvegia, non contiene alcuna prova di un coinvolgimento di Tehran. Eppure potrebbe rappresentare il casus belli che l’Amministrazione Trump cerca per passare dalle imposizioni di sanzioni economiche e diplomatiche all’Iran – il dipartimento americano del Tesoro ha appena annunciato sanzioni contro la Persian Gulf Petrochemical che considera la holding petrolchimica più grande dell’Iran – ad una guerra vera e propria. Ne sono una prova i conflitti nel Golfo degli ultimi trent’anni innescati dagli Usa. Le quattro navi sarebbero state sabotate con mine Limpet, posizionate con magneti sugli scafi delle navi da sommozzatori con motoscafi. Secondo gli Emirati erano necessarie delle capacità di intelligence per scegliere gli obiettivi visto che le navi non erano posizionate nello stesso posto.
Gli Stati Uniti hanno subito accusato l’Iran. Tra i due paesi la tensione resta molto alta a causa delle sanzioni economiche e della decisione presa un anno fa da Donald Trump di uscire dall’accordo internazionale sul programma iraniano di produzione di energia nucleare (Jcpoa). Il mese scorso, scriveva ieri il Wall Street Journal, per due settimane, si è rischiato un conflitto. La Marina americana ha intercettato nel Golfo e seguito due navi commerciali iraniane con il sospetto che avessero a bordo missili. La tensione è scesa solo dopo l’arrivo delle due navi in porto ma il rischio di un scontro militare resta. Fonti dell’esercito Usa hanno confermato al Wsj l’intenzione di rinforzare la presenza americana nell’area in modo da «colpire l’Iran e i suoi alleati» se la Casa Bianca decidesse di passare all’azione. Nelle scorse settimane Washington ha inviato nell’area del Golfo il gruppo di attacco guidato dalla portaerei Abraham Lincoln, bombardieri strategici B-52 e missili Patriot.
Israele e Arabia saudita soffiano sul fuoco. Il premier Netanyahu lancia accuse quotidiane all’Iran e Riyadh l’altro giorno all’Onu a differenza degli Emirati ha subito puntato il dito contro Tehran. «Crediamo che la responsabilità di questo attacco ricada sull’Iran», ha detto l’ambasciatore saudita, Abdallah al-Mouallimi, aggiungendo che gli attacchi del mese scorso dimostrano i rischi per le forniture di petrolio (per lo stretto di Hormuz passa 1/3 del greggio mondiale) l’urgenza di un intervento del Consiglio di Sicurezza. Intervento che quasi certamente non ci sarà per la contrarietà del Cremlino. Il vice ambasciatore della Russia all’Onu, Vladimir Safronkov, ha sottolineato che non è stata presentata alcuna prova che colleghi l’Iran agli attacchi. «Non dovremmo saltare a certe conclusioni», ha aggiunto.
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